Antonio Pappano: Verdi - Britten, Ian Bostridge tenore - Alessio Allegrini corno

    » Segnala ad un amico

    AUDITORIUM PARCO DELLA MUSICA Sala Santa Cecilia
    Orchestra dell’Accademia Nazionale di Santa Cecilia

     

    Sir Antonio Pappano Direttore
    Ian Bostridge Tenore
    Alessio Allegrini Corno

     

    Giuseppe Verdi
    (Roncole di Busseto, Parma 1813 - Milano 1901)
    Quartetto per archi in mi minore
    (versione per orchestra d’archi)
    Allegro
    Andantino
    Prestissimo
    Scherzo Fuga (Allegro assai mosso)

    Data di composizione
    1873
    Prima esecuzione
    9 dicembre 1875,
    Conservatorio di Milano

     

    Tratto dal programma di sala dell’Accademia Nazionale di Santa Cecilia

    «Ho scritto proprio nei momenti d’ozio di Napoli un quartetto. L’ho fatto eseguire una sera in casa mia senza dargli la minima importanza, e senza far invito di sorta… Se il quartetto sia bello o brutto non so… so però che è un quartetto!».
    Almeno a parole, l’atteggiamento di Giuseppe Verdi verso il suo Quartetto per archi, unico esempio di musica strumentale da camera nella sua produzione, è sempre stato quello di una tiepida ambiguità. Il brano citato è tratto da una lettera indirizzata al giornalista e suo amico Opprandino Arrivabene datata 16 aprile 1873, nella quale si dà notizia della prima esecuzione di questo pezzo, scritto effettivamente a Napoli, dove Verdi aveva soggiornato in occasione della prima rappresentazione locale dell’Aida prevista al Teatro San Carlo. Il debutto era però slittato di alcuni giorni a causa di un’improvvisa malattia della cantante che avrebbe dovuto sostenere il ruolo principale (la famosa Teresa Stolz, sul cui rapporto con il compositore è stato scritto molto e non senza malizia).
    Sono questi i “momenti d’ozio” cui allude Verdi nella lettera. Riesce tuttavia difficile credere che l’allora sessantenne e famosissimo compositore possa aver concepito un Quartetto come un semplice passatempo. L’intenzione di cimentarsi con una forma puramente strumentale risale, infatti, almeno al 1865 ed è ugualmente significativo che un anno prima Verdi si fosse interessato alla pubblicazione di alcuni classici della musica strumentale da parte di Tito Ricordi, scrivendogli fra l’altro: «Perché non hanno fra le opere di Scarlatti messo una fuga così detta del Gatto? Era cosa buona, opportunissimo dimostrare la chiarezza dell’antica scuola napoletana. Con un soggetto così strano un tedesco avrebbe fatto un caos, un italiano ne ha fatto cosa limpida come il sole» (2 novembre 1864).
    Ed ecco il punto. Per Verdi, “musica strumentale” significava essenzialmente “musica tedesca” e, in quanto tale, portatrice di caratteri profondamente appartenenti a un ambito culturale estraneo a quello italiano. Negli anni immediatamente successivi alla proclamazione dell’Unità d’Italia, il compositore è più che mai convinto che i caratteri di un’identità nazionale debbano ritrovarsi anche nelle radici della tradizione musicale autoctona. Tanto più se parliamo di una tradizione come la nostra, così piena di storia, che però ha trovato nella dimensione melodica (e quindi nella vocalità, e quindi nel dramma lirico) il punto di maggior forza.
    Queste posizioni echeggiano, non casualmente, quelle espresse anni prima da Giuseppe Mazzini nella sua Filosofia della musica. In questo scritto giovanile, pubblicato nel 1833 (Verdi era appena ventenne), Mazzini invocava la necessità di un rinnovamento musicale, sostenendo al contempo l’idea di una musica “sociale” che veicolasse idee e contenuti “civili”, rintracciandone le premesse proprio nella nostra tradizione. «La musica italiana è in sommo grado melodica… L’individualità ha ispirato, generalmente parlando, la nostra musica», vi si legge.
    E più avanti: «La musica tedesca procede per altra via. V’è Dio senza l’uomo… Armonica in sommo grado, essa rappresenta il pensiero sociale, il concetto generale, l’idea, ma senza l’individualità che traduca il pensiero in azione… La musica tedesca si consuma inutilmente nel misticismo» .“Pensiero e azione”, il celebre motto mazziniano, risuonava dunque anche nella musica e di lì a poco, con i suoi drammi storici, Verdi ne sarebbe diventato l’interprete ideale.
    Perché allora, con queste convinzioni, comporre un Quartetto per archi? Forse Verdi non lo sa ancora, o forse lo intuisce intimamente, ma quando scrive il Quartetto in mi minore (1873, abbiamo detto, che è anche l’anno del Requiem) è solo all’inizio di un lungo periodo in cui si asterrà dal comporre opere liriche nuove. Più che di un vero “silenzio”, si tratta di una pausa dal mondo del teatro interrotta solo nel 1880, quando inizierà a lavorare al rifacimento del Simon Boccanegra (più tardi anche del Don Carlos), ma soprattutto, lentamente, al nuovo progetto dell’Otello che debutterà solo nel 1887. La situazione politica è completamente cambiata: “l’Italia è fatta” e Verdi ha dato il suo contributo (riconosciutogli con un posto nel Parlamento del neonato Regno d’Italia), ma la consapevolezza che “ora bisogna fare gli italiani” lascia gradualmente il posto alla disillusione dell’idealista che si trova a confrontarsi con la concretezza della politica. Dagli anni Sessanta, poi, sono aumentati anche nel nostro Paese i consensi per Wagner, un tedesco che sta imponendo le sue idee, peraltro fortemente nazionaliste, anche in materia di teatro musicale.
    Come se non bastasse, in questo stesso periodo si affermano un po’ in tutta Italia le Società del Quartetto, che contribuiscono alla diffusione di un repertorio cameristico che ha ovviamente il proprio vertice nei classici tedeschi e austriaci. È una realtà che incuriosisce anche Verdi, il cui pregiudizio antitedesco non gli impediva di riconoscere, sebbene rabbiosamente, la maestria di un Haydn o di un Beethoven.
    «Ho ricevuto il Quartetto e ve ne ringrazio, – scriveva a Giulio Ricordi nel luglio del 1876 in occasione della prima edizione del suo lavoro – L’interno non vale l’esterno, e lo valesse anche, è convenuto che noi italiani non dobbiamo ammirare questo genere di composizioni se non porta un nome tedesco. Sempre gli stessi!».
    Due anni dopo, nonostante le richieste d’esecuzione del Quartetto, Verdi è ancora dello stesso avviso, anzi rincara la dose con una celebre metafora: «Non volli dare nessuna importanza a quel pezzo perché credevo allora e credo ancora (forse a torto) che il Quartetto in Italia sia pianta fuori clima».
    In quel “forse a torto” ci sono appena i margini per riconoscere un po’ di merito al nostro Luigi Boccherini, al quale dobbiamo alcuni prototipi del Quartetto classico. Ma, per il resto, è vero che né i Quartetti di Paganini, né quelli di Donizetti possono reggere il confronto con i capolavori assoluti di Mozart e Beethoven. Né, d’altra parte, gli interessantissimi Quartetti di Cherubini riuscirono mai a creare il “clima” adatto perché attecchisse la pianta di una loro scuola. Il basso profilo con cui Verdi giudicò sempre il suo Quartetto riflette, in fin dei conti, la prudenza con cui, in un momento storico particolare, volle cimentarsi con un genere così lontano dall’ambito operistico, nel quale era diventato il Maestro venerato da tutta Europa. Il compositore del Rigoletto sa di muoversi da “novizio” su un terreno rischiosissimo, privo di forti modelli nazionali e con lo spettro incombente dei padri fondatori del classicismo viennese. Eppure si mette alla prova, forse con il segreto proposito di indicare egli stesso un modello, elaborando una scrittura che si affida all’immediatezza del ritmo, alla forza di alcuni spunti melodici e, soprattutto, al sano rigore del contrappunto.
    Il risultato è un Quartetto che si sostiene in un delicatissimo equilibrio di tutti questi elementi, ai quali si aggiungono il rispetto formale dei canonici quattro movimenti (di durata contenuta e senza forzature bislacche) e un’impronta decisamente personale nella costruzione dei temi e delle armonie. In definitiva: una “deliziosa eccezione”, destinata a rimanere tale non soltanto nella produzione verdiana, ma nell’intero panorama italiano. Al di fuori di una logica drammaturgica che si fonda sulla tensione creata dall’accostamento di situazioni sceniche, Verdi lavora su un primo movimento basato su un netto contrasto fra due temi. Ciò che maggiormente lo interessa è però il dialogo tra le quattro parti, condotto in maniera serrata con incastri e procedimenti imitativi. Fa capolino, in passaggi di raccordo, un inciso di tre-quattro note ribattute e ben marcate che ricorda il celebre incipit della Quinta Sinfonia di Beethoven. Da notare che in questo Allegro di sonata viene eliminata la sezione di sviluppo in favore di una ripresa opportunamente variata.
    Dietro le sue movenze da Minuetto (ma questo termine non compare) l’Andantino che troviamo in seconda posizione, da suonare “con eleganza”, nasconde in realtà una raffinata ricerca armonica. A seguire, troviamo un movimento che ha tutto il carattere e la forma di uno “Scherzo” (indicato semplicemente come un Prestissimo), che è anche quello maggiormente evocatore di certi luoghi del teatro verdiano più sanguigno: è nel cuore di questa pagina che Verdi pone l’unico tema veramente “cantabile” (così in partitura) del Quartetto, affidato al registro tenorile del violoncello.
    Del tutto inattesa è, invece, la dicitura di Scherzo Fuga con cui il compositore definisce il movimento conclusivo, che è una Fuga in tutto e per tutto. È a questo punto che Verdi si discosta dai maestri tedeschi, per i quali non è affatto consuetudine terminare un pezzo cameristico con una forma contrappuntistica (la “Grande Fuga” di Beethoven, originariamente concepita come finale del suo Quartetto op. 130 e poi sostituita e pubblicata come pezzo a parte, è l’eccezione che conferma la regola).
    L’interesse per la polifonia di scuola palestriniana nell’ultimo Verdi, del resto, è ampiamente testimoniato dal Requiem e dai Quattro Pezzi sacri. Per analogia, inoltre, si potrebbe citare il celebre concertato finale del Falstaff, “Tutto nel mondo è burla”. Ma questi esempi riguardano tutti l’ambito vocale. L’operazione che Verdi attua inserendo una Fuga in un Quartetto per archi ha un’altra valenza: dimostrare che l’Italia possiede una propria tradizione contrappuntistica (quella di Frescobaldi e Palestrina), in grado di rigenerarsi anche nelle “attuali” forme cameristiche.
    Un’intenzione evidente fin dal soggetto della Fuga – staccato, pianissimo e leggero – zeppo di cromatismi e salti vocalmente scomodi, ma affrontabili dalla tecnica strumentale. Nel controsoggetto riemerge un breve inciso di note ripetute che acquisterà rilievo nel corso del pezzo, e che rimanda nuovamente alla “Quinta” di Beethoven (eseguita, non a caso, in questa stessa serata). Lo stesso Verdi sottolineava la complessità di scrittura di questa e i pericoli per l’esecuzione: «I tre primi tempi non presentano difficoltà d’interpretazione, ma l’ultimo sì. Se alla prova voi sentite (termometro infallibile) qualche squarcio un po’ impasticciato, dite pure che, se anche ben eseguito, è mal interpretato. Tutto deve sortire, anche nei contrappunti più complicati, netto e chiaro. E questo si ottiene suonando leggerissimamente e molto staccato in modo che si distingua sempre il soggetto sia diritto sia rovesciato». Nel 1877 Verdi acconsentì a una richiesta inaspettata: «Pochi
    giorni fa mi domandarono l’autorizzazione di eseguirlo a Londra raddoppiando a 20 ciascuna parte. Eseguito da 80 suonatori dovrebbe far bene, soprattutto perché vi sono frasi che esigerebbero un suono pieno e grasso piuttosto che il magro di un solo violino». Per orchestra d’archi il pezzo si svincolava dall’ambito cameristico e ne usciva, a suo parere, anche migliorato. In questo assetto fu “riscoperto” anni dopo da Toscanini, che ne fece una dimostrazione di virtuosismo orchestrale eseguendo spesso lo Scherzo come bis.

     

    Benjamin Britten
    (Lowenstoft, Suffolk 1913 - Aldeburgh 1976)
    Serenata per tenore, corno e archi op. 31 (Leggi i testi)
    Prologue
    Pastoral (Charles Cotton)
    Nocturne (Lord Alfred Tennyson)
    Elegy (William Blake)
    Dirge (Anonimo del XV secolo)
    Hymn (Ben Jonson)
    Sonnet (John Keats)
    Epilogue

    Data di composizione
    1943
    Prima esecuzione
    Londra,
    15 ottobre 1943
    Direttore
    Walter Goehr
    Tenore
    Peter Pears
    Corno
    Dennis Brain
    Organico
    Tenore,
    Corno, Archi

     

    Il periodo tra il 1939 e il 1942 che Benjamin Britten trascorse negli Stati Uniti, al riparo dal clima e dagli avvenimenti bellici che imperversavano in Europa, si rivelò estremamente proficuo.
    Partito insieme al compagno Peter Pears, su sollecitazione del poeta loro amico Wystan Hugh Auden, in quegli anni il compositore britannico tenne concerti, portò a termine importanti lavori (tra cui il Concerto per violino e i Seven Sonnets of Michelangelo), ma soprattutto “scoprì” il poema di George Crabbe, da cui sarebbe derivata l’opera Peter Grimes. Al ritorno in Inghilterra, nell’aprile del 1942, forte anche della commissione ricevuta da Sergej Kusevitzkij, Britten sviluppò l’idea di quel dramma “marino”, che però fra ritardi e contrattempi di varia natura, debutterà solo nel 1945.
    È in questo arco di tempo, in cui le varie fasi del Grimes vanno definendosi, che si colloca la Serenade op. 31 (1943), lavoro strumentale nel quale non sarebbe del tutto fuori luogo ravvisare un condizionamento di tipo drammaturgico. Non parliamo, naturalmente, della destinazione che è sempre stata quella concertistica, quanto piuttosto della logica con la quale Britten riesce ad ottenere un equilibrio formale, organizzando materiali poetici di provenienza diversa in un percors “drammaturgico” emotivo-descrittivo di grande suggestione.
    Pensato originariamente con il titolo di Nocturnes, Serenade è un ciclo vocale in otto parti, per tenore, orchestra d’archi e corno con funzione solista e concertante. Un organico dettato in primo luogo dall’intento di Britten di omaggiare due persone a lui molto care, il tenore Peter Pears e il virtuoso di corno Dennis Brain, ai quali deve aggiungersi un altro sodale, il poeta e critico Edward Sackville-West, che avrà una parte importante nella selezione dei testi e al quale, peraltro, la partitura è dedicata. Al di là di questi legami affettivi, si tratta di una scelta timbrica molto precisa, che contribuisce in maniera decisiva alla realizzazione di colori e situazioni musicali che interagiscono continuamente con il testo cantato, conferendogli spessore e valorizzandone le implicazioni psicologiche. «Il soggetto di Serenade è la Notte con le sue illusioni, le ombre che si allungano, la foschia lontana al tramonto, la panoplia barocca del cielo stellato, gli angeli pesanti del sonno; ma anche il mantello del male, il verme nel cuore della rosa, il senso del peccato nel cuore dell’uomo», scrive Sackville-West, «L’intera sequenza forma un’elegia o un “notturno” (come avrebbe detto John Donne) che rivede i pensieri e le immagini adatte per la sera».
    Non tutte le parti della Serenade utilizzano tutte le risorse strumentali a disposizione: Britten costruisce, infatti, una forma simmetrica incastonando sei pezzi cantati fra due “a solo” del corno, quasi identici fra loro, posti uno all’inizio e uno alla fine del ciclo. L’intervento conclusivo, inoltre, prevede che il corno sia collocato fuori scena: una differenza sonora, ma soprattutto un effetto “teatrale” che è anche la rappresentazione di un congedo, leggibile a sua volta come una metafora
    della morte.
    Anche la scelta dei soli archi (analoga a quella del precedente ciclo vocale Les Illuminations, da Rimbaud) determina un’omogeneità timbrica di base, appena ampliata dall’uso di sordine e pizzicati. In questa tavolozza cromatica così spartana, acquista un rilievo essenziale l’impiego da parte del corno dei suoni armonici naturali, che ammantano di un effetto velato i suoi momenti solistici: artificio che, oltre alla scrittura britteniana di per sé impervia, aggiunge ulteriori difficoltà
    tecniche al cornista.
    Ricorda il compositore: «[Brain] era sempre molto cauto nel suggerirmi dei cambiamenti. Passaggi che sembravano impossibili anche per il suo prodigioso talento venivano provati più e più volte prima che qualche modifica fosse suggerita, tale era il suo rispetto per le idee di un compositore […]. Per un certo periodo sembrò che nessun altro sarebbe mai stato in grado di suonare adeguatamente quella musica. Poi, come spesso accade quando un pezzo entra in repertorio, lentamente anche altri interpreti hanno sviluppato la tecnica per affrontarlo».
    A differenza di precedenti composizioni vocali ispirate organicamente a testi di singoli autori, Serenade impagina liriche di poeti inglesi diversi tra loro per stile, che spaziano tra il Quattrocento e l’Ottocento. Pastoral è tratta dal poemetto Evening Quatrains di Charles Cotton (1630-1687), noto in patria come traduttore di Montaigne e autore di poemi burleschi, nonché di un trattato di pesca di trote; Nocturne è un classico del poeta vittoriano Alfred Tennyson (1809-1892) meglio conosciuto con il suo primo verso “The splendour falls on castle walls”, mentre Elegy corrisponde a una breve lirica di William Blake (1757-1827) tratta dalla raccolta Songs of Experience. Dirge è l’unico pezzo a utilizzare un testo anonimo, “Lyke Wake Dirge” per l’appunto, che appartiene alla tradizione del secolo XV. Il termine “Dirge” proviene dal latino Dirige, prima parola dell’Antifona mattutina nell’Officium defunctorum, talvolta usata anche per indicare il momento del Vespera e dunque, con accezione ampliata, “canto della sera”. Gli ultimi due pezzi cantati, Hymn e Sonnets, si servono dei versi di due capisaldi della letteratura inglese: l’elisabettiano Ben Jonson (1572-1637) e il romantico John Keats (1795-1821). In questo florilegium un posto di rilievo spetta a William Blake, poeta visionario, ermetico e mistico che rappresentò per Britten un costante punto di riferimento nella sua formazione culturale. I suoi versi ricorreranno ancora, fra l’altro, in Songs of Proverbs of William Blake per baritono e pianoforte, e nel brano corale Voices of today (entrambi del 1965). Non essendoci un vero centro simmetrico nella sequenza degli otto pezzi di Serenade, in quarta posizione Elegy assume comunque una funzione catalizzatrice. La sua struttura, inoltre, riflette quella dell’intero ciclo: come Serenade è incorniciata da due momenti solistici del corno, così Elegy si apre e si chiude con lunghi suoni esposti dal corno in frasi di ampio respiro sostenute da un’armonia fissa tessuta dagli archi. In questo paesaggio metafisico eminentemente strumentale, alla voce è riservato il momento centrale per intonare il breve componimento di Blake. “The invisible Worm” che corrode la “rosa malata” (e che presagisce “The Conqueror Worm” di Edgar Allan Poe), segna il punto di svolta di una “drammaturgia” che inizia con le quartine di Cotton. Una serena descrizione della fine del giorno e l’approssimarsi della sera con le prospettive distorte create dalle ombre (e come un’ombra il corno segue il canto, prolungandone alcuni suoni): è il regno di Febo che deve “condurre il mondo sulla strada del riposo”. I musicalissimi versi del Nocturne di Tennyson, così ricchi di rime, assonanze, risonanze e allitterazioni (“Blow, bugle, blow, set the wild echoes flying / Bugle blow; answer, echoes, dying, dying, dying”) aprono una finestra su una visione piena di luci, suoni e colori che la notte disegna su paesaggi naturali (la superficie increspata di un lago notturno creata dai tremoli degli archi, sui quali ancora una volta la voce dialoga con il corno, ora animato da esuberanti spunti di fanfara).
    Dopo l’Elegia blakeana, conclusa sulle misteriose oscillazioni del corno tra suoni “aperti” e suoni “chiusi” in base a una particolare tecnica, il Dirge introduce una struttura metrica ripetitiva ed ossessiva che Britten alimenta avviando una Fuga cupa e dal profilo nervoso. È forse questo il momento a cui si riferiva Sackville-West alludendo al «mantello del male» e al «senso del peccato nel cuore dell’uomo».
    Accompagnata dai versi di Ben Jonson inneggianti alla Luna (“Cynthia’s shining orb”), si svolge una “caccia” dai toni rinascimentali, in cui il corno recupera l’icona originale di strumento venatorio, mentre il tenore trova modo di concedersi dei melismi sulle parole “Goddess excellently bright” per ciascuna delle tre strofe.
    La voce torna in primo piano nel Sonetto di Keats (in cui è assente il corno) che chiude il set dei pezzi cantati: un’invocazione al sonno e alle tenebre che è al tempo stesso il desiderio di una fuga dal mondo attraverso la perdita della coscienza. Anche in senso definitivo, come lascia intendere l’ultimo verso (“E sigilla la bara ovattata della mia Anima”), istituendo un richiamo all’Abschied con cui Mahler si congedava in Das Lied von der Erde, al cui senso di quiete questa pagina britteniana può essere giustamente accostata.
    La conclusione, come già osservato, è affidata al cornista che ripete il suo a solo d’esordio, ma fuori scena. Serenade fu eseguito per la prima volta il 15 ottobre 1943 alla Wigmore Hall di Londra con la voce di Pears, Brain al corno e la direzione di Walter Goehr. Britten tornerà nuovamente a confrontarsi con il tema della notte in forma di ciclo vocale strumentale nel 1958 con Nocturne op.60, anch’esso strutturato in otto parti (ma senza soluzione di continuità), su testi di poeti inglesi, per voce di tenore, archi e questa volta non uno, ma ben sette strumenti “obbligati”.

    Rai.it

    Siti Rai online: 847