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Paolo De Benedetti, "L'alfabeto ebraico"

Collana Uomini e Profeti, Morcelliana 2011

Paolo De Benedetti, "L'alfabeto ebraico"

In nessun’altra lingua, forse, come nell’ebraico, un alfabeto è così intriso di storia, di senso, di materia dell’uomo e di presenza di Dio. In nessun’altra lingua il codice espressivo è così denso di carne e di sangue, di interrogazione filosofica e di pensiero teologico. «Dio sul monte Sinai si è incarnato, se così si può dire, in una scrittura fatta con l’alfabeto», dice Paolo De Benedetti. Per questo a ogni singola lettera è dovuto rispetto, attenzione, amore. Per questo a ogni singola lettera è dovuto ascolto. Per questo a ogni singola lettera, che è depositaria anche di un valore numerico, è dovuta la fatica del calcolo e della corrispondenza. Paolo De Benedetti pratica in queste pagine innesti della sua intelligenza ironica nel rigoglioso patrimonio  della tradizione rabbinica, facendo germogliare una «abitazione del senso» dalle lettere «scolpite nella voce, intagliate nello spirito, fissate sulla bocca», facendo risplendere in esse le quattro «stelle polari» che defi niscono l’essenza dell’ebraismo.
La prima: contemplare sempre un’“altra” interpretazione possibile, diversa dalla propria. Questo è un buon antidoto rispetto a ogni tentazione di pensiero assoluto. La seconda: aggiungere a ogni affermazione un “se così si può dire”, facendo spazio a quella di altri, anche non espressa. La terza: mettere un tempo di “sospensione” tra la domanda e la risposta. Ciò non significa che non si debbano proporre soluzioni ai nostri quesiti, ma che non dobbiamo avere la pretesa di risolvere tutte le difficoltà. La quarta: secondo un detto rabbinico, occorre insegnare alla propria lingua a dire “non so”, per non essere presi per mentitori. Se così si può dire, nell’alfabeto ebraico e nei suoi minuscoli segni è contenuta allora tutta la creazione e, insieme, la nostra possibilità di darle un senso.
(Gabriella Caramore, dalla quarta di copertina)

 

 

Paolo De Benedetti, già docente di Giudaismo presso la Facoltà Teologica dell’Italia Settentrionale di Milano, e di Antico Testamento presso gli Istituti di Scienze Religiose dell’Università di Urbino e di Trento, ha pubblicato per Morcelliana: Il filo d’erba. Verso una teologia della creatura a partire da una novella di Pirandello (2009); Teologia degli animali (2004); Qohelet. Un commento (2004); E il loro grido salì a Dio. Commento all’Esodo (2002); Sulla Pasqua (2001); A sua immagine. Una lettura della Genesi (2002); Introduzione al Giudaismo (2001);Quale Dio? Una domanda dalla storia (2006); La chiamata di Samuele (2006); La morte di Mosè e altri esempi (2006).

 

 


Rabbi Uri diceva: Le miriadi di lettere della Torà corrispondono alle miriadi di anime di Israele; se nel rotolo della Torà manca una lettera, esso non è valido; se manca un’anima nella lega di Israele, la Shekhinà non posa su di essa.
Come le lettere, anche le anime devono collegarsi e diventare una lega. Ma perché è proibito che una lettera nella Torà tocchi la sua vicina? Ogni anima d’Israele deve avere ore in cui è sola con il suo Creatore.

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