Antonio Pappano: Bartók Musica per archi

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    AUDITORIUM PARCO DELLA MUSICA
    Sala Santa Cecilia
    Orchestra dell’Accademia Nazionale di Santa Cecilia

     

    Antonio Pappano
    direttore

     

    Béla Bartók
    (Nagyszentmiklós 1881 - New York 1945)
    Musica per archi, percussione e celesta
    Andante tranquillo
    Allegro
    Adagio
    Allegro molto
    Data di composizione
    1936
    Prima esecuzione
    Basilea, 21 gennaio 1937
    Orchestra da Camera di Basilea
    Direttore
    Paul Sacher
    Organico
    Pianoforte, Arpa, Celesta,
    Xilofono, Tamburo piccolo,
    Tam-Tam, Piatti, Timpani,
    Grancassa, Archi

     

    Musica per archi, percussione e celesta di Bartók
    Tratto dal programma di sala dell’Accademia Nazionale di Santa Cecilia

    Nella Filosofia della musica moderna di Theodor W. Adorno, il libro che ha maggiormente condizionato la valutazione critica, storica e ideologica della musica del Novecento, non c’è posto per Béla Bartók. Il celebre studio, pubblicato nel 1949, si proponeva per metodo di considerare il pensiero musicale “moderno” attraverso la contrapposizione delle due tendenze più estreme: quella progressista riconducibile a Schönberg e quella restauratrice facente capo a Stravinskij. «Se si volesse passare in rassegna tutta la produzione qualitativamente moderna, comprendendovi tutte le transizioni e i compromessi, si finirebbe inevitabilmente con l’imbattersi in quegli estremi – precisa Adorno –. Questo però non implica necessariamente un giudizio sul valore e neppure sul peso rappresentativo di ciò che sta nel mezzo: i migliori lavori di Béla Bartók, che cercò sotto certi aspetti di conciliare Schönberg e Stravinskij, sono probabilmente superiori alla produzione di quest’ultimo per densità e pienezza». Tutta qui la presenza di Bartók nel testo adorniano. E gli va di lusso, visto il trattamento riservato ad altri compositori novecenteschi come Šostakovič, Britten, Hindemith e Milhaud, liquidati en passant con espressioni ai limiti dell’ingiuria.

    Certo non sono mancate le “storie” della musica che hanno provveduto a delineare un quadro, se non completo, almeno più oggettivo della musica del secolo scorso, riconoscendo a ciascun compositore – e Bartók tra questi – il giusto apporto. È tuttavia innegabile che all’interno della ferrea dialettica adorniana, oggi forse inattuale ma non così facilmente screditabile come si vorrebbe, il compositore ungherese non trovi diritto di collocazione. Più che un conciliatore tra gli opposti (una definizione effettivamente affrettata), Bartók doveva apparire come un oggetto misterioso, sicuramente degno di attenzione, ma sostanzialmente un outsider. Appartenente a una sfera culturale ed etnica periferica rispetto alla Mitteleuropa, la sua personalità presentava elementi per archi ,percussione e celesta di forte originalità misti a fraintendimenti su influenze impressioniste; poco si sapeva, inoltre, sulla sua attività di etnomusicologo, sul meticoloso e pionieristico lavoro di catalogazione di canti popolari balcanici e sul ruolo effettivo che tali studi avevano avuto sul suo linguaggio musicale, ben diverso da quel richiamo all’esotico che aveva alimentato il sorgere delle cosiddette “scuole nazionali” sul finire dell’Ottocento.

    In questo senso Bartók risulta davvero difficilmente collocabile (e non soltanto per Adorno che, per parte sua, era principalmente interessato a trovare due pilastri su cui impostare il proprio sistema filosofico). La modernità dell’autore del Mandarino miracoloso viene fuori alla distanza, nel corso della seconda metà del Novecento, sulla scorta di un processo di elaborazione e metabolizzazione delle polemiche adorniane che tennero banco anche a Darmstadt negli anni Cinquanta. Tra i principali artefici vi furono, infatti, proprio gli animatori della “Nuova musica” che nei processi compositivi di Bartók evidenziarono il ruolo dell’elemento formale, il recupero del contrappunto e l’attenzione per le costruzioni simmetriche sia su piccola che su larga scala, il ricorso a sistemi alternativi al linguaggio tonale come il cromatismo organico e la presenza di scale modali, il lavoro sul ritmo e la ricerca di soluzioni timbriche inedite. Componenti, a ben vedere, non dissimili – almeno sulla carta – dalla poetica di Anton Webern, il compositore austriaco allievo di Schönberg nel quale i vari Boulez e Stockhausen vollero riconoscere uno dei loro padri putativi.

    Insieme alla Sonata per due pianoforti e percussioni e agli ultimi Quartetti, emblema di questo personale sperimentalismo è la Musica per archi, percussione e celesta, composta nel 1936 su commissione dell’Orchestra da camera di Basilea, allora diretta da Paul Sacher che ne firmò la prima esecuzione il 21 gennaio dell’anno successivo.

    Benché la Musica si articoli in quattro movimenti ben distinti e separati, la scelta di rinunciare a un titolo che si rifaccia a una forma prestabilita, così come a un nome o a un’immagine evocativi, rivela l’intento di concentrarsi su una dimensione prettamente oggettiva e informale definita unicamente dall’organico strumentale prescelto. Un ensemble di soli archi, ripartiti al loro interno in due gruppi (due sezioni per viole, violoncelli e contrabbassi, quattro per i violini) da disporre in modo perfettamente speculare a semicerchio; al centro, un set di percussioni composto da timpani, gran cassa, piatti, tamburo piccolo e xilofono, in cui Bartók fa rientrare anche la celesta, l’arpa e il pianoforte. La funzione di quest’ultimo non è dunque assimilabile a quella di solista, né di “pianoforte in orchestra”, recuperando piuttosto la sua primigenia e barbarica natura percussiva. Quanto all’arpa, il suo ruolo è essenziale nella coagulazione timbrica tra le varie sezioni e in particolare tra pianoforte e celesta. cd e libri.

    L’aggettivo “tranquillo” (in italiano) che definisce l’Andante con cui si apre la composizione deve intendersi come un’indicazione pertinente al tempo d’esecuzione, disteso appunto e privo della minima oscillazione agogica, e non piuttosto un’indicazione espressiva che suonerebbe affatto incongrua con il piano di sospensione metafisica su cui si pone l’intero movimento. Emerge dal silenzio, esposta pianissimo dalle viole con sordina, una figurazione frammentaria e apparentemente informe che si muove in un ambito ristretto di semitoni. È il soggetto di una fuga, rigorosissima nel suo svolgimento quanto oscillante in una griglia metrica continuamente mutevole, cui fa seguito la risposta dei terzi e quarti violini insieme, quindi dei violoncelli, dei secondi violini, dei contrabbassi fino alla sesta voce, la più acuta, affidata- ai violini primi. Questo “contrappunto germinale”, per usare una definizione di Massimo Mila, anima lentamente le voci che, ravvivate da un crescendo strisciante, raggiungono un primo culmine nel punto di massimo ispessimento delle parti in corrispondenza del primo riferimento modale, l’intervallo di quinta la-re, in fortissimo, per poi convergere immediatamente su un ulteriore climax rappresentato da un improvviso unisono, anch’esso in fortissimo e ribattuto, che degrada esaurendo presto la sua portata espressiva. Riprende a questo punto il fugato iniziale, ma in senso inverso, finché irrompe il timbro irreale, magico ed inquietante, della celesta che con una serie di arpeggi ostinati accompagna l’esposizione dei soggetti di fuga, l’originale e il suo inverso, presentati simultaneamente, penultimo atto di una tessitura contrappuntistica che si spegne rapidamente in un terminale esercizio imitativo.

    Il tema informe della fuga ricompare a tratti nei movimenti successivi e costituisce l’elemento unificatore dell’intera composizione. Nel secondo movimento, un Allegro in forma di sonata, la ripartizione degli archi in due blocchi contrapposti è palese e assume funzione strutturale, con passaggi compatti all’unisono alternati a momenti di filatura del tessuto contrappuntistico, l’esposizione lineare dei temi, gli addensamenti timbrici e l’ossatura ritmica sempre in evidenza. Lo sviluppo sottopone i temi a un lavorio di parcellazioni, inversioni e ostinati ritmici, fino a un episodio in cui il pianoforte emerge in primo piano. Dopo una sezione strettamente imitativa con gli archi pizzicati, lo svolgimento culmina in un fugato ricavato da un inciso cromatico del primo tema che dal registro grave dei violoncelli trascina a poco a poco nella sua lenta marcia ascendente le altre sezioni degli archi in un crescendo che prelude alla ricapitolazione, opportunamente variata, della prima parte.

    Anche se non vi è alcuna indicazione al riguardo, il terzo movimento, Adagio, è una tipica “musica della notte”, così come compariva nella Suite pianistica All’aria aperta, analoga ai movimenti centrali della Sonata per due pianoforti e percussioni e del Primo Concerto per pianoforte e orchestra. In apertura, lo xilofono afferma una serie di rintocchi ripetuti in progressiva accelerazione e successivo rallentamento: una figura simmetrica che informa di sé l’intero movimento, scandito in sei episodi fra loro corrispondenti, e le sue parti. Il timbro gioca qui un ruolo fondamentale e ad esso Bartók “affida i brividi delle sue visioni più allucinanti, i fruscii, i sussurri in cui si esplica la vita segreta delle cose” (Mila). Anche i temi, esposti linearmente dagli archi, appaiono distorti sopra la continua instabilità creata dai glissandi sospesi dei timpani e le immateriali fasce timbriche generate dalla combinazione di figure ripetitive e simmetriche affidate a pianoforte, arpa e celesta in sovrapposizione.

    I cinefili ricorderanno che con questa musica il regista Stanley Kubrick realizzò una delle sue straordinarie operazioni di straniamento del repertorio preesistente, inserendola a commento di uno dei passaggi cruciali di Shining (1980), quando il protagonista, interpretato da Jack Nicholson, perde coscienza di sé per passare definitivamente in balia delle forze maligne che abitano l’Overlook Hotel. I glissandi degli archi e gli ostinati ossessivi di arpa, pianoforte e celesta rendono perfettamente, in questa occasione, il senso di smarrimento, la sospensione del tempo e la perdita di riferimenti razionali del personaggio, trasmettendo subliminalmente allo spettatore un senso di inquietudine e angoscia profondi.

    Con il suo carattere di Rapsodia popolare, il finale Allegro molto è il movimento nel quale i riferimenti al folclore appaiono più scoperti, anche se privi della genuinità originaria e considerati come componenti strutturali della tessitura melodica e armonica. Così il trascinante tema d’esordio in ritmo bulgaro è in realtà un’elaborazione del soggetto di fuga del primo movimento, sottoposto a inversione e vivacizzato al punto da renderlo irriconoscibile. Il soggetto tornerà percepibile solo nel penultimo episodio, ma depurato della sua componente cromatica e riportato sul piano diatonico.

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