Daniel Harding: Ravel Concerto in sol - Daphnis et Chloé II suite, Stefano Bollani Pianoforte

AUDITORIUM PARCO DELLA MUSICA Sala Santa Cecilia
Orchestra dell’Accademia Nazionale di Santa Cecilia

 

Daniel Harding Direttore
Stefano Bollani Pianoforte
Ciro Visco Maestro del Coro

 

Maurice Ravel (Ciboure 1875 - Parigi 1937)
Concerto in sol per pianoforte e orchestra
Daphnis et Chloé seconda suite

 

Maurice Ravel
Concerto in sol per pianoforte e orchestra
Allegramente
Adagio assai
Presto
Data di composizione
1929-1931
Prima esecuzione
Parigi, 14 gennaio 1932
Direttore
Maurice Ravel
Pianista
Marguerite Long
Organico
Pianoforte solista,
Ottavino, Flauto,
Oboe, Corno inglese,
Clarinetto, Clarinetto Piccolo,
2 Fagotti, 2 Corni, Tromba,
Trombone, Timpani,
Percussioni, Arpa, Archi


Il Concerto in sol di Ravel
di Mauro Mariani
Tratto dal programma di sala dell’Accademia Nazionale di Santa Cecilia

Può apparire sorprendente che Ravel, magico distillatore di colori strumentali che spesso sollecitano al massimo le capacità dell’esecutore, non sia stato tentato dalla forma del Concerto solistico fino agli ultimi anni della sua attività: vi pensò per la prima volta nel 1927, in vista d’una tournée negli Stati Uniti, ritenendo che un pezzo di tal genere sarebbe stato un ottimo biglietto da visita per un pubblico dai gusti circensi come quello americano del tempo, ma non ne fece nulla, perché considerazioni di questo tipo non stimolavano più di tanto un compositore d’aristocratica eleganza come Ravel. Dunque, alla sua partenza per l’America esistevano soltanto alcuni abbozzi del progettato Concerto e il lavoro non progredì molto neppure dopo il ritorno in Francia, nella primavera del 1928. Ma nel 1929 il pianista austriaco Paul Wittgenstein, che aveva perduto il braccio destro durante la guerra, chiese a Ravel di scrivere per lui un Concerto per la mano sinistra: la composizione di questo Concerto risvegliò l’interesse di Ravel anche per l’altro, cosicché da allora in poi i due Concerti procedettero parallelamente.

Accurato e meticoloso fino al perfezionismo, Ravel si prese tutto il tempo necessario, cosicché il Concerto in sol venne eseguito per la prima volta solo il 14 gennaio 1932, a Parigi, dalla pianista Marguerite Long (cui è dedicato) e dall’Orchestra Lamoureux diretta dall’autore stesso. Il Concerto in re maggiore per la mano sinistra era stato eseguito da Wittgenstein a Vienna meno di due mesi prima.

Per quanto l’impronta di Ravel sia evidente in entrambi, difficilmente si potrebbero immaginare due Concerti più diversi: il Concerto in sol maggiore è lieve, scorrevole e spumeggiante, mentre il Concerto per la mano sinistra è drammatico, ha colori scuri e adotta la maniera “grande” (una grandiosità che non significa magniloquenza, ma nobiltà di concezione, di stile e di tematica). In un’intervista Ravel presentò così il Concerto in sol: “Penso effettivamente che la musica d’un Concerto possa essere gaia e brillante e che non sia necessario che aspiri alla profondità o che miri ad effetti drammatici”, e aggiunse d’averlo composto nello spirito di Mozart e di Saint-Saëns, due nomi indicativi sia delle posizioni antiromantiche di Ravel sia della sua preferenza per un pianismo nitido e brillante.

Il primo movimento inizia, dopo la sorpresa d’un secco colpo di frusta, con un vivace e piccolo tema, il cui carattere gaio e danzante (il ritmo ricorda un branle, danza francese d’origine popolare) è valorizzato dal timbro penetrante e giocoso dello strumento cui è affidato, l’ottavino: questo tema subito passa alla tromba e si propaga all’intera orchestra. Il pianoforte dà l’avvio a una sezione in tempo meno vivo, basata su alcuni nuovi motivi in cui sono riconoscibili echi del folclore iberico (in questo e nell’ultimo movimento confluirono alcune idee originariamente destinate a una fantasia basca per pianoforte e orchestra intitolata Zaspiak Bat, cioè Le sette province, che non vide mai la luce) e anche ritmi jazzistici. Quindi pianoforte e orchestra danno vita a un serrato dialogo in cui risplendono i preziosismi e i colori della scrittura strumentale raveliana, alternando momenti esuberanti e graffianti ad altri trasparenti e incantati (tra questi ultimi, vanno segnalati l’episodio affidato all’arpa e quello del pianoforte fittamente ornato di trilli). Al pianoforte è affidata la lunghissima, semplice, casta, disadorna, placida ma nobile melodia dell’Adagio assai, su uno spoglio ed essenziale accompagnamento dell’orchestra, che riserva però soluzioni che potevano essere trovate solo da un mago qual era Ravel, come l’intervento del flauto, squisitamente delicato e tenero, che si inserisce prodigiosamente nel canto del pianoforte. Non ci sono parole per descrivere l’atmosfera incantata e soffusa di serena mestizia di questo movimento, che evoca il favoloso Jardin féerique di Ma mère l’Oye e il sogno de L’enfant et les sortilèges. Questa lunghissima melodia sembra scritta d’un solo getto, ma Ravel affermava d’averla composta con grande pena, due battute per due battute, tenendo presente come modello ideale il sublime Larghetto del Quintetto per clarinetto e archi K. 581 di Mozart. All’incanto dell’Adagio assai succedono ex abrupto la vivacità senza freni e la frenesia motoria del Presto, che riporta alle atmosfere del primo movimento. La scrittura percussiva del pianoforte rende difficile riconoscere lo stesso strumento che poco prima cantava una purissima melodia, mentre su un ritmo indiavolato gli elementi tematici zampillano, s’inseguono e s’incrociano senza tregua, subendo continue trasformazioni, fino ai quattro squillanti accordi della brillante conclusione.

 

Maurice Ravel
Daphnis et Chloé seconda suite
Lever du jour (Alba)
Pantomime (Pantomima)
Danse générale (Danza generale)
Data di composizione
1909-1912
Prima esecuzione
Parigi,
Théâtre du Châtelet
8 giugno 1912
Direttore
Pierre Monteux
Organico
Coro,
Ottavino, 2 Flauti,
Flauto in sol, 2 Oboi,
Corno inglese, 2 Clarinetti,
Clarinetto basso,
Clarinetto piccolo,
3 Fagotti, Controfagotto,
4 Corni, 4 Trombe,
3 Tromboni, Basso tuba,
Timpani, Percussioni,
2 Arpe, Archi

Daphnis et Chloé di Ravel
di Franco Serpa
Tratto dal programma di sala dell’Accademia Nazionale di Santa Cecilia

Nel 1904 il grande coreografo russo Michel Fokine, allora giovane artista colto e curioso, aveva proposto alla Direzione dei teatri di Pietroburgo un balletto tratto dagli Amori pastorali di Dafni e Cloe, il breve romanzo dello scrittore greco Longo Sofista (abbiamo la sua delicata e raffinatissima narrazione, ma di lui sappiamo solo il nome: si pensa che sia vissuto alla fine del II secolo d.C.). L’idea di Fokine, sorta per un gusto estetistico e classicheggiante, era forse un po’ in anticipo per i tempi e i luoghi, e, infatti, i funzionari di Pietroburgo la respinsero. Ma non l’abbandonò Fokine, che pochi anni dopo, forse nel 1908, e in differenti condizioni culturali (si era infatti trasferito a Parigi), ne parlò con Diaghilev; e il genialissimo impresario la accettò senza esitare e affidò la musica a Ravel (ma sulle date del progetto e delle decisioni c’è confusione nei ricordi degli interessati). Ravel era giovane (nel 1908 aveva trentatré anni), ma era già molto noto (aveva scritto il Quartetto, i Miroirs per pianoforte, la Rhapsodie espagnole, per citare solo alcuni capolavori).

La grazia poetica dell’argomento, la sua novità, le proporzioni spettacolari del proposito scenico, la collaborazione di tre intelligenze superiori (anzi quattro, ché Diaghilev, naturalmente, scelse subito per protagonista Nijinskij) lasciavano prevedere un lavoro sereno e un’agevole conclusione. Non fu così. Nel suo Dafni e Cloe Longo Sofista altera non poco e semplifica lo schema consueto dei romanzi greci (innamoramento di due giovani, promessa di nozze, impedimenti e peripezie con
inganni, rapimenti, viaggi, delusioni, nuovo incontro e felice soluzione: è, come si sa, anche lo schema dei Promessi sposi di Manzoni) perché la vicenda si svolge tra i pastori, in un’Arcadia ideale e stilizzata, e perché Longo descrive il sorgere dell’amore tra i due pastorelli poco più che bambini. In questa prosa levigata e sottile più che le solite avventure e disavventure dei protagonisti (però, c’è anche qui il rapimento), più che la tecnica narrativa, dunque, contano il lirismo panico o languido delle descrizioni bucoliche, e un’accortezza psicologica teneramente attenta ai caratteri di una virginea, infantile sensualità. Noi italiani abbiamo, o avremmo, la fortuna di poter leggere il romanzo di Longo Sofista nella splendida traduzione rinascimentale di Annibal Caro, incomparabilmente superiore alla traduzione francese di Amyot (quella che lesse Ravel) e perfino superiore, forse, all’originale greco per eleganza e chiarezza (ma non credo che la meravigliosa prosa di Caro interessi oggi qualcuno). Mondo della fanciullezza e delle sue fantasie, trasfigurazione letteraria di paesaggi, sogno di un’umanità serena, primitiva, perfetta, naturalmente bella e cortese, noi non stupiamo che Ravel abbia dato il meglio di sé in questa grande partitura, a concepire la quale egli fu ispirato e guidato da emozioni fondamentali nella sua visione dell’arte. “È stata mia intenzione comporre un vasto affresco musicale, meno attento all’arcaismo che alla fedeltà verso una Grecia dei miei sogni, che volentieri si congiunge alla Grecia che hanno immaginato e dipinto gli artisti francesi della fine del XVIII secolo” (Ravel, nell’Esquisse biographique, dettata a Roland-Manuel). E scrisse un capolavoro che gli costò non poche amarezze e che per qualche anno ebbe scarso favore (il manoscritto fu terminato il 5 aprile 1912). Le sfortunate vicende finali della creazione del balletto sono complicate e per qualche aspetto confuse. Improvvisamente Diaghilev perse interesse per il lavoro, già molto avanzato: o perché tra Ravel e Fokine c’erano state divergenze, o perché qualche anticipo di ascolto della musica lo aveva deluso (chissà perché: quella musica!), o perché stava tramontando la moda dei grandi balletti tradizionali a intreccio (i ballets d’action), con danza, mimica e sostanzioso sostegno orchestrale (con le loro idee estetiche, snobistiche e digiune, Satie e il Cocteau di allora credevano di poter giudicare dall’alto in basso perfino il Daphnis di Ravel e impressionavano Diaghilev). Infine, a completamento, durante le prove ci furono furiosi contrasti tra Diaghilev e Nijinskij da una parte e Fokine dall’altra (anche Ravel era insoddisfatto delle scene di Léon Bakst, per altro magnifiche in sé e per sé). Si mise in mezzo perfino il corpo di ballo, che trovava serie difficoltà a tenere il tempo di 5/4 rapidissimo nella Danse générale dell’ultima scena (si arrangiarono poi, scandendo ognuno tra sé le cinque sillabe: Djà-gi-lev-Sèr-giei). Sì che un lavoro così limpido, colorito, gioioso nacque tra rancori e scontenti, che guastarono la prima serata (Théâtre du Châtelet, 8 giugno 1912, con Nijinskij e la Karsavina, direttore Pierre Monteux): quella sera il vero successo toccò a Nijinski, ma per la replica del suo sensualissimo, lascivo Après-midi d’un faune; e alla ripresa dell’anno successivo, il 1913, al Daphnis non andò meglio perché il 29 maggio esplose lo scandalo del Sacre di Stravinskij, che spinse nell’ombra ogni altro balletto. Però Stravinskij affermava che il Daphnis et Chloé è “una delle opere più belle della musica francese”.

Ma se sulla scena il Daphnis non ha avuto, né allora né poi, un successo paragonabile a quello dei grandi balletti romantici o di altri pochi novecenteschi, le due Suites che Ravel ne ha tratto, sono giustamente tra i brani più eseguiti del repertorio sinfonico e prediletto dai grandi direttori per il colorismo della prodigiosa strumentazione.
La musica della II Suite è quella del terzo dei tre quadri del balletto. I pirati hanno rapito Cloe e Dafni accusa le ninfe e, sfinito, si assopisce nella loro grotta. Ma esse lo compatiscono e chiamano a soccorso Pan. E il dio con una sua prodigiosa apparizione salva Cloe dalle mani dei pirati e la riporta ai suoi pastori. Qui s’inizia il terzo Quadro (e la II Suite). All’alba, in un quieto paesaggio arcadico, lo spazio è colmo di voci, di echi, dei ruscelli, delle brezze mattutine, sentiamo il canto delle creature naturali, delle ninfe, dei satiri, dei sileni. In lontananza passa un pastore col suo gregge, poi un altro (ascoltiamo gli acuti arabeschi del loro flauto campestre). Entrano altri pastori, destano Dafni e gli gettano tra le braccia la fanciulla salvata. La luce del mattino rifulge, la musica si espande in una grande melodia di felicità (“È solo un accordo di re maggiore con la sesta aggiunta”, diceva con compiaciuta modestia Ravel!). Dafni comprende che la salvezza di Cloe e la loro felicità sono un dono di Pan. Istruiti e sollecitati dal vecchio Lammon (impersonato la sera della prima dal glorioso ballerino e coreografo Enrico Cecchetti, ormai anziano), i due ragazzi mimano la storia degli amori di Pan e della ninfa Syrinx: ella prima lo rifiuta, il malinconico dio strappa una canna, si crea un flauto, e, su un ritmo molle, suona un’acuta, languida serenata. Syrinx-Cloe balla sulla musica di Pan, prima lentamente poi con animazione sempre più viva.

I due ragazzi terminano la loro recita graziosa, cadendo l’una nelle braccia dell’altro: l’orchestra ripete con pathos crescente il tema di Dafni. Irrompono in scena alcune fanciulle vestite da baccanti, poi giovani pastori esultanti. Nella musica si scatena un ritmo frenetico (la Danse générale, il famoso 5/4) da cui tutti sono inebriati e travolti.

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