[an error occurred while processing this directive]

La cerimonia degli addii

Recensione - Le novità editoriali

Apre il settore degli addii. Dopo quello in corso d’opera di Ivano Fossati – beccato anche da Aldo Grasso sul Corriere del 16 ottobre, dopo i due pezzi apparsi su Il Foglio il 4 ottobre; per tacere di Andrea Scanzi che sul Fatto Quotidiano del 12 ottobre sfotte Jovanotti, davvero poco credibile come icona intellettuale – ora tocca a Maurizio Cattelan. L’artista sul Corriere del 10 ottobre afferma di essere infelice e di voler appendere tutto al chiodo. Lo segue il calciatore Antonio Cassano, che si dice stressato ed annuncia tra un paio di anni smette. Prendiamo nota. Poi è la volta della televisione; che non può ritirarsi, pure se sarebbe da provare, però comincia a spegnere le sue luci. Lo riportano i giornali il 20 ottobre. Su La Stampa si parla del calo degli ascolti e di programmi interrotti come “Baila!”, “Me lo dicono tutti” e “Star Academy”. La fine è nota: crisi di idee. Al punto sull’argomento firma un pezzo Walter Siti, puntando l’indice sugli autori ed il loro attuale stato di panico. Il tono non cambia sul Corriere; dove tuttavia viene inserito da Maria Volpe un altro elemento, e cioè quello della divisione dei ruoli nei programmi: notizia e politica per gli uomini, parti più leggere per le donne. La Tv scoppierà pure, come tuona il titolo dell’articolo, ma la nostra società non cambia: le donne vengono dopo. Conclude la ricognizione L’Unità del 22 ottobre, dove i flop sono spiegati attraverso  l’appiattimento delle trasmissioni su modelli già esistenti. Più serio il bilancio, riassunto da Giuseppe Sarcina sul Corriere del 20 ottobre, del sociologo Giuseppe De Rita, Presidente del Censis, e del giornalista Antonio Galdo; i quali pubblicano per Laterza (dopo una precedente indagine di quindici anni fa) “L’eclissi della borghesia”; che ha perso anch’essa, secondo la disamina dei due autori, il senso dello stato; e che può tuttavia individuare una via d’uscita nel volontariato, inteso come risorsa per dare slancio ad una nuova classe dirigente. Bella immagine che fa da contrappeso alla notizia, riportata sulla stessa pagina, del successo ottenuto dal sesto libro di Fabio Volo, intitolato “Le prime luci del mattino”. Seicentomila copie in meno di una settimana e vetta della classifica dei libri più venduti, superando campioni di vendita come Coelho e Dan Brown. Nel fondo di Severino Colombo non è dato sapere se il libro è buono. La notizia è la vendita. 

Bravo Flavio Della Rocca, su L’Unità del 9 ottobre, che si chiede a cosa serva la tv in 3d se mancano le trasmissioni. Già la domanda meriterebbe il Pulitzer. Intanto leggiamo l’ultimo numero di MicroMega, dedicato al cinema, e in particolare l’elenco curato da Mario Sesti sui serial americani che, grazie alla parallela diffusione in Rete, hanno rivoluzionato lo schermo. Ma la rivoluzione risulta inattesa. Ecco “Battlestar Galactica”, durato 4 stagioni; “Breaking Bad”, idem; “Carnivale”, 2 stagioni; “Desperate Housewives”, 8 stagioni; “Dexter”, 6 stagioni; “Dr. House”, 7 stagioni; “Heroes” 4 stagioni; “In Treatment”, 3 stagioni; “Lost”, 6 stagioni”; “Mad Men”, 4 stagioni; “Six Feet Under”, 5 stagioni; “The Sopranos”, 6 stagioni; “24”, 8 stagioni; infine “Wire” – i cui episodi più significativi sono stati rivisti dallo scrittore David Foster Wallace prima di togliersi la vita, come da testimonianza della moglie – che è durato 5 stagioni. Sesti scrive gli anni Novanta hanno rappresentato una nuova età dell’oro della tv, con fiction durate anche molti anni, ed intelligentemente chiude con una domanda: dopo decenni di spietata retorica intorno alla narrazione corta e cortissima di spot, videoclip e cortometraggi, da dove sgorga questo bisogno di narrazione lunga e infinita? Di fatto il Web (dove nel frattempo Gianni Morandi a sorpresa annuncia presenterà la prossima edizione del Festival di San Remo) sprona, senza mai mettere insieme delle ragioni, ad essere rapidi. Persino su You Porn gli amanti arrivano in un battibaleno alla resa dei conti; facendo sembrare i vecchi filmetti hard degli anni Settanta delle pensose pellicole da cineclub alla Wim Wenders, roba come “Falso Movimento” o “Lo stato delle cose” (oddio, nei cineclub c’era anche il dibattito). Sì perché lì almeno gli attori, vestiti, si scambiavano qualche battuta immortale – del tipo: che dice, ci spogliamo? – prima di passare alle vie di fatto. Tuttavia la tecnologia, se da un lato ci obbliga ad essere veloci senza causa, dall’altro ci induce a leggere “I Fratelli Karamazov” su l’iPad. Felici, non capiamo. Annusiamo solo l’odore dei soldi. Così si annunciano tempi duri per gli addetti ai lavori e toccherà fare almeno tre o quattro dozzine di riunioni al giorno; senza naturalmente venire a capo di niente perché non c’è niente di cui venire a capo, almeno per la nostra generazione. 

Tuttavia nell’immediato qualcosa di cui dibattere c’è, ed è il vuoto lasciato da Steve Jobs. Sul Manifesto del 14 ottobre Benedetto Vecchi mostra come il suo ricordo, a pochi giorni dalla scomparsa, sia a metà strada tra l’apologia e la denigrazione; e come sulla Rete si siano sviluppate aspre discussioni, emergendo le caratteristiche ambivalenti del modello di impresa che ha plasmato la vita del fondatore della Apple; la cui comunità globale – spiega Vecchi – è stata il valore aggiunto che ha determinato il successo dei prodotti. Su un tema non distante, perché riguarda il potere e il mouse, Vecchi fa ritorno il 23 ottobre sempre sul Manifesto; con un pezzo su Julian Assange (per via di un libro: “Wikileaks. La battaglia di Julian Assange contro il potere di Stato”, per Nutrimenti) dove si racconta come sia cambiata la geografia politica del Web. Sull’eredità di Steve Jobs rincara la dose L’Unità del 14 ottobre; dove il vice-direttore Luca Landò si chiede se Jobs fosse conservatore o rivoluzionario; poiché l’affermazione del suo marchio è stata legata all’applicazione, nel campo della tecnologia, di regole appartenenti alla moda. Esce dal coro, almeno per l’Italia, il finanziere Jody Vender; che al Corriere del 7 ottobre afferma da noi nessuno averebbe investito sulle sue idee. Nella media gli interventi invece di Ernesto Assante, su Repubblica del 7 ottobre, che rievoca “Spoon River” e parla del primo funerale digitale; di Livia Manera, sul Corriere, che ne racconta la storia personale del tutto romanzesca; di Alberto Piccinini, sempre sul Manifesto del 7 ottobre, che lo inquadra come un borghese rivoluzionario; e di Bruno Ruffilli, sulla Stampa ancora del 7 ottobre, che ricorda la nascita di iTunes Stores (il negozio di musica on line della Apple che con i suoi 18 miliardi di canzoni contenute e un giro d’affari di 23 miliari di Euro, è diventato il più grande negozio di musica al mondo). 

Il giorno dopo Il Foglio, a firma di Maurizio Stefanini, suggerisce come sopravvivere allo stress digitale; quasi da sponda a “Faccialibro”, la sitcom italiana sulla dipendenza da social network lanciata sul portale Microsoft, totalizzando 1,5 milioni di visualizzazioni nei dieci episodi della prima stagione. Alla tradizione, e forse anche a qualcos’altro, ci riporta piuttosto l’amara intervista rilasciata da Andrea Cane ad Antonio Gnoli, ed apparsa su Repubblica il 15 ottobre. Un mese fa Cane, editor della Mondadori, è stato licenziato – lui dice cacciato per un scontro di potere – e denuncia che i manager non si rendono bene conto che l’editoria non è un’industria come le altre. Sembra politica, comunque una cosa dove non c’è spazio per la letteratura. Su un altro fronte, tenacemente, gli occupanti del Valle – così come riportato dal Manifesto del 20 ottobre, in un pezzo di Ugo Mattei – presentano uno Statuto per la gestione del teatro, una cornice giuridica affinché l’offerta e la produzione culturale (dalla partecipazione dei lavoratori alla definizione dei criteri di selezione del direttore) siano un patrimonio condiviso. Ancora a Roma ma all’Auditorium, su volontà del Sindaco Alemanno, la Mostra “P.P.P.” (non un granché come titolo) celebra a partire dal 27 ottobre Pier Paolo Pasolini, la cui figura è ricordata da Aurelio Picca sul Messaggero del 23 ottobre, chiedendosi cosa resti della sua vicenda intellettuale. Chissà come Pasolini avrebbe commentato l’Unità del 6 ottobre, dove Giordano Montecchi cataloga le voci della cultura in Italia, i cui consumi sono sotto il livello europeo. La statistica riporta 833 Euro di media annuale per la spesa (giornali, libri, spettacoli, musei, apparecchi audio-video...) contro i 945 della Francia, i 1334 della Germania e i 1050 della Gran Bretagna. I numeri dicono anche nel nostro paese gli impiegati, impegnati nei diversi livelli della industria culturale, erano nel 2009 89.400; contro i 145.400 della Francia; i 412.900 della Germania; e i 186.900 della Gran Bretagna. Infine il fatturato del settore editoriale nel 2007 è stato in Italia di 3,865 milioni di Euro; di 5,737 in Francia; di 9.870 in Germania; e di 3,502 in Gran Bretagna. 

Lontano dai numeri Raffaele La Capria, in un bell’editoriale apparso sul Corriere del 25 ottobre, suggerisce un ruolo diverso per la letteratura; indicando come essa possa diventare una memoria creativa contro i politicanti, e come i libri siano in grado di difendere il pensiero e la lingua dagli eccessi del dibattito in tv. Mentre Valerio Magrelli, su Repubblica del 6 ottobre, racconta del nuovo libro di Maurizio Ferraris (“Anima e iPad” per Guanda); dove si riflette sul connubio tra mente e materia, raffigurato oggi nel nostro rapporto con l’oggetto hi-tech. Pare non ci sia stata la scomparsa, bensì la proliferazione della scrittura. Il problema rimane quello sempiterno della dipendenza: non è affatto ovvio Internet renda stupidi, suggerisce il libro, quel che è certo è che può rendere schiavi. E fin qui.   Pare ormai evidente diciamo e scriviamo un mucchio di cose – una più moderna dell’altra, ci mancherebbe – per ripetere tuttavia gli stessi concetti. Intimi ed espansivi, malinconici e furiosi, profondi e senza senso: siamo davvero capaci di andare avanti? Troveremo il modo di ridimensionare la tecnologia? Le macchine ci rendono schiavi, ma dipende dall’uso che ne facciamo etc. etc. Però, ci soccorrono gli esperti (sempre più numerosi): possiamo dialogare con nostra cugina ad Adelaide e chiederle che tempo fa in Australia, oppure come sta (che è sempre gradito, come pensiero). Ma dobbiamo farlo molto velocemente. Magari nostra cugina avrebbe voglia di chiacchierare, e nel frattempo pure di raccontarci di una vecchia zia schiattata in un trionfo di broccoli sniffati per nostalgia, ma non possiamo darle troppa retta. Avere tempo non è previsto. Concederlo agli altri peggio ancora.

Anna Maria Merlo, sul Manifesto dell’8 ottobre 2011, racconta finalmente di un punto di incontro tra il Web e la carta stampata; consumato nell’accordo tra Mediapart, il sito di punta dell’informazione d’inchiesta in Francia, e il settimanale politico Polis. Lo stesso giorno sul Messaggero leggiamo del pentimento di Roberto Cotroneo, che ci fa sapere prima non apprezzava Erri De Luca (in libreria con l’ultimo “I pesci non chiudono gli occhi”, per Feltrinelli) e ora invece sì. Chiedere scusa. Come ancora bisognerebbe fare nei confronti della memoria di Lelio Luttazzi, che nell’imminente Festival del Cinema di Roma sarà ricordato con la proiezione de “L’illazione”; il film, adesso restaurato, che il popolare conduttore girò nel 1972 sulla vicenda dell’arresto che lo rovinò. Confermato come il passato resti il miglior affare dello show business. Non solo la dignità del ricordo di Luttazzi. Per esempio su compact-disc, concerti e affini si esprime la nuova regola pop. Cantanti maturi, da Sting a George Michael, affidano ad una nostalgica orchestra il loro repertorio (mentre Nick Mason dei Pink Floyd a Marco Molendini, sul Messaggero del 9 ottobre, dice apertamente che ha nostalgia e basta!). Tra gli operatori del settore più attivi spunta Peter Gabriel, che regala la migliore battuta a Marinella Venegoni, su La Stampa del 7 ottobre: quando mia figlia ha ascoltato la musica che facevo con i Genesis, ha chiesto se davvero ci pagavano per fare quella roba! Lo segue il compositore americano Steve Reich, che a Repubblica del 22 ottobre dichiara: Intendo prendere due canzoni dei Radiohead, “Jigsaw Falling Into Place” e “Everything In It’s Right Place”, e riscriverle alla mia maniera. Solo che ai Radiohead ancora glielo devo dire! Gabriel in particolare è celebrato, insieme ad altri, in un articolo di Peppe Videtti, su Repubblica del 23 ottobre, dedicato agli eroi della world-music che di fatto hanno anticipato il multiculturalismo. Nella stessa pagina un articolo del cantante David Byrne; il quale, nelle vesti di giornalista, proprio non si spiega come, pure in un’epoca di rinnovata popolarità della world-music, la scena musicale italiana non abbia considerazione. Il musicista indica nel pregiudizio degli ascoltatori il motivo del fenomeno, e ne auspica il superamento come prossimo passaggio da affrontare. Il passaggio definitivo, specifica. Speriamo i fatti gli diano ragione. Abbattere i pregiudizi, almeno nell’arte, come sarebbe bello. Potrà servire a qualcosa la tecnologia?


A cura di Vittorio Castelnuovo
[an error occurred while processing this directive]