Olha Vozna - Ucraina

Il programma è stato realizzato in collaborazione con il Ministero dell'Interno - Dipartimento per le Libertà Civili e l'Immigrazione

e con il cofinanziamento del Fondo Asilo Migrazione e Integrazione 2014-2020



Paesi

India - Punjab (Sikh)

TERRITORIO E CLIMA

Il Punjab, o Panjab, “la terra dei cinque fiumi” (punj significa “cinque” e aab significa “acqua”), è una regione a cavallo della frontiera tra India e Pakistan. I “cinque fiumi” ( Beas, Ravi, Sutlej, Chenab e Jhelum) sono tutti affluenti dell'Indo.

La maggior parte del territorio del Punjab è formata da una vasta pianura alluvionale, creata dalla sedimentazione dei detriti derivati dalla grande cintura di montagne oltre i suoi confini nord-orientali.

Nonostante l’aridità del clima, l'irrigazione estensiva, resa possibile dal grande sistema fluviale, storicamente ha sempre dato alla regione una ricca produzione agricola.

Le temperature oscillano da -20 a 40 °C (MIN/MAX), ma in estate possono arrivare fino a 47 °C.

 

STORIA

L'area conosciuta come il Grande Punjab comprendeva vasti territori dell'India settentrionale e del Pakistan orientale.

I primi insediamenti di coltivatori risalgono alla metà del VII millennio a.C.

La civiltà Harappa, una delle prime culture conosciute dell'Asia meridionale, addomesticò lo zebù e il bufalo e riuscì a coltivare frumento, orzo e riso. Harappa si sviluppò tra il 3300 e il 1600 a.C., diventando una delle più popolose e importanti città fortificate della civiltà della valle dell'Indo: sotto l’acropoli, l’abitato era disposto regolarmente secondo linee perpendicolari; i resti di grandi edifici con fori per l’areazione fanno pensare a silos per l’immagazzinamento dei cereali. Vi sono state rinvenute anche testimonianze di una delle più antiche forme di scrittura: una scrittura sillabica di circa 400 caratteri (2600-1900 a.C.), analoga a quella dei Sumeri, con i quali Harappa intratteneva scambi commerciali. Due necropoli hanno conservato importanti reperti: quella della civiltà della Valle dell’Indo presenta corpi inumati in bare di legno con la testa girata verso nord, mentre il cosiddetto “cimitero H”, di epoca posteriore, testimonia che probabilmente proprio qui ebbe origine l’usanza di cremare i defunti, insieme al primo nucleo della civiltà vedica.   È nel cimitero H che sono stati rinvenuti oggetti di artigianato di grande qualità, come ornamenti di pietre dure e ceramiche con ricchi disegni bicolori.

Verso il 1800 a.C., nell’Asia sud-occidentale si verificò probabilmente un sensibile abbassamento delle temperature e una diminuzione della piovosità che mise in crisi la civiltà della valle dell’Indo e spinse gli Arii (o Ariani), popolazioni nomadi indoiraniche, a oltrepassare le montagne e a migrare verso sud. Le tribù penetrarono nelle regioni dell’India settentrionale e a partire dal 1300 a.C. consolidarono il loro dominio e si imposero nel Punjab e in un territorio molto ampio. Gli Arii non avevano una unità statuale o imperiale, per cui si frammentarono e mescolarono culturalmente alle popolazioni locali. Si formarono le diverse lingue indiane, a partire dal sanscrito, e si affermò l’uso del ferro. Effetti di lunghissima durata sul futuro del subcontinente indiano avrà l’imposizione di un sistema sociale e politico basato sulla rigidità delle caste, in cui solo agli Arii erano riservate quelle più alte dei brahmani (sacerdoti e depositari dei testi sacri) e dei kshatriya (detentori del potere militare, politico e amministrativo).

È in questi secoli che la regione del Punjab divenne culla e punto di riferimento della cultura vedica ed epica: vi furono composte le scritture sacre indù (i Rig Veda, le Upanishad, molti Purana); e in queste terre, secondo la leggenda, il dio Krishna diffuse il suo verbo con i versi della Bhagavad Gita e si combatterono le battaglie raccontate nel Mahabharata.

Ma il Punjab ha visto stratificarsi nei secoli un patrimonio etnico, culturale e religioso più articolato e complesso, dovuto anche alle successive invasioni e all’avvicendarsi di imperi e dominazioni.

Nel 326 a.C., quando Alessandro Magno si spinse fino alla conquista dell’India, la monarchia del Punjab oppose una fiera resistenza, ma rimase nell’alveo del regno indo-greco anche dopo la morte del condottiero macedone. Poi seguirono i Persiani, gli Arabi, i Turchi, i Mongoli, gli Afghani e i Beluci.

Di grande importanza per la storia del Punjab è il periodo dell’impero Moghul, che dominò l’India dal XVI e l’inizio del XVIII secolo: una dinastia di origine turco-mongola proveniente dall’Uzbekistan, che favorì l’immigrazione dalla Turchia e dall’Asia centrale e il diffondersi dell’Islam.

Fu durante l’iniziale affermarsi del dominio Moghul che si affermò la figura di Guru Nanak (1469-1538), il fondatore di un potente movimento popolare che ha lasciato un’impronta duratura sulla cultura del Punjab. Nanak rifiutava la divisione degli uomini secondo rigidi criteri religiosi e di casta e predicava l'unicità dell'umanità e quella di Dio. La sua filosofia divenne il punto di partenza della fede Sikh.

L’imperatore Moghul Akbar “il Grande” tentò di fondare una religione che unisse sincretisticamente Induismo e Islam, ma tra i suoi discendenti ci fu chi, come l’ultimo Moghul, Aurangzeb, si dimostrò meno aperto e impose con la forza il proprio dominio e la fede musulmana.
Alla morte di Aurangzeb, nel 1707, l’impero Moghul cominciò a disgregarsi sotto i colpi delle rivolte interne e della pressione delle potenze coloniali, francese e soprattutto inglese (attraverso la Compagnia delle Indie).

In Punjab, il sikhismo divenne la bandiera sotto cui riunire spinte e movimenti contro i Moghul e la minaccia afghana.
Dalla metà del ‘700, con i nemici islamici indeboliti e prossimi alla sconfitta totale e definitiva, la maggior parte dei principati si alleò per aderire al nuovo Impero Sikh.
Il Dal Khalsa, una sorta di ordine cavalleresco, un corpo di guerrieri scelti che aveva combattuto i Moghul, divenne un organo consultivo democratico che poteva opporsi anche al Maharaja. Il primo fu Ranjit Singh, soprannominato “Leone del Punjab”, incoronato nel 1801.
L’Impero Sikh arrivò a controllare un territorio esteso fino al Kashmir e al Tibet, ma mostrò presto la sua debolezza a causa delle divisioni interne. Il cosiddetto “Raj Britannico”, che controllava già gran parte del subcontinente indiano, si impadronì presto anche dell’intero Punjab. L’impero Sikh, caduto sotto i colpi di due disfatte militari, era durato solo 50 anni: dal 1799 al 1849.

La lotta per l’indipendenza dell’India (che comprendeva allora anche il Pakistan) dall’impero coloniale britannico durò decenni. I due maggiori movimenti, il Congresso Nazionale Indiano e la Lega Musulmana Panindiana, avevano però obiettivi diversi: il primo proponeva uno stato unitario, per contrastare un possibile separatismo da parte delle regioni a maggioranza islamica.

Nel 1945, nella Gran Bretagna stremata e impoverita dalla seconda guerra mondiale, andò al governo Clement Attlee, del partito laburista, favorevole alla decolonizzazione. In India, i disordini crescevano ogni giorno e nel 1946 la Royal Indian Navy arrivò all’ammutinamento. Di fronte al precipitare degli eventi e al rischio di una guerra civile, l’ultimo viceré, Lord Mountbatten, anticipò l’indipendenza - prevista entro il 1948 -  al 15 agosto 1947.

Ma la partizione dell’India in aree indù e aree islamiche, come prevista dai confini tracciati dai britannici, trovò milioni di persone nelle aree sbagliate, provocando violenze e stragi tra i due gruppi ed esodi di massa, in entrambe le direzioni: gli induisti verso l’India e i musulmani verso il Pakistan, i due grandi stati nati dalla partizione.
Il Punjab fu una delle aree maggiormente coinvolte da una vera e propria guerra civile, con centinaia di migliaia di vittime.
Al confine, e con la massiccia compresenza di entrambe le culture e religioni, fu diviso tra i due nuovi paesi: la parte prevalentemente musulmana ad ovest divenne lo Stato del Punjab pakistano; la parte a est, per lo più di cultura e religione sikh e indù, divenne lo Stato del Punjab indiano.

 

IL PUNJAB INDIANO

Negli anni successivi alla partizione, il Punjab orientale, ora indiano, è stato ulteriormente suddiviso nei moderni stati indiani del Punjab, dell’Haryana, dell’Himachal Pradesh e del Delhi.

L’attuale Stato del Punjab è di 50.362 km², poco più di un sesto dell’Italia, ma con una popolazione di circa 30.046.000 persone, cioè poco meno della metà di quella italiana (dati del 2016).



Palazzo dell'Assemblea a Chandigarh

La capitale del Punjab indiviso era Lahore, vicino alla linea di spartizione e rimasta capitale del Punjab pakistano. Dunque fu necessario costruire ex novo una capitale per lo Stato indiano del Punjab: Chandigarh (circa 809.000 abitanti).
Da quando, nel 1966, la parte sud est del Punjab, l’Haryana, per lo più indù, divenne uno Stato separato, Chandigarh, al confine tra i due, serve da capitale a entrambi gli stati, ma ne è amministrativamente indipendente: un territorio separato (Union Territory of Chandigarh) che risponde direttamente al governo centrale. I conflitti etnico-religiosi hanno infatti continuato ad essere affrontati e controllati con le divisioni territoriali e il centralismo.
Il nome Chandigarh significa “casa di Chandi”, una dea hindu che colpisce senza pietà demoni e malvagi. Il suo tempio (Chandi Mandir) si trova a 15 chilometri da Chandigarh, nell’Haryana.
Chandigarh è sicuramente una delle città più ricche dell’India e di una bellezza sorprendentemente moderna, ariosa ed essenziale. Negli anni cinquanta, è stata infatti ridisegnata come una “nuova utopia” da un piano urbanistico di Le Corbusier e vanta la più grande concentrazione al mondo di opere del padre dell’architettura del cemento armato.
È nato da un suo progetto anche il Lago Sukhna, pensato per la “cura del corpo e dello spirito” degli abitanti e vietato sin dall’inizio ai mezzi a motore.

 

IL “ROCK GARDEN”



Rock Garden a Chandigarh

Sulle rive del Lago Sukhna a Chandigarh sorge il “Rock Garden”, un’estesa esposizione all’aperto delle originalissime creazioni dello scultore indiano autodidatta Nek Chand (1924-2015).

Nato in Pakistan ed emigrato in India dopo la spartizione del 1947, Nek Chand era ispettore dei lavori pubblici nella Chandigarh in costruzione degli anni cinquanta. Girando in bicicletta, raccoglieva pezzi di risulta nei cantieri del grandioso progetto urbanistico di Le Corbusier: frammenti di ceramica, pietra, cemento, acciaio, vetro, terracotta, materiale elettrico… Portava tutto in una gola nella foresta ai margini del Lago Sukhna, un’area protetta con divieto assoluto di costruzione: qui, del tutto illegalmente, creò un poco per volta un regno personale e bizzarro, che riuscì a tenere nascosto per 18 anni.
Nel 1975, le autorità scoprirono 5 ettari e mezzo, articolati in un sistema di cortili, con centinaia di fantasiose sculture di danzatori, musicisti e animali. Un mondo che, per rispetto della legge, si sarebbe dovuto demolire, ma che fu invece conservato grazie al sostegno dell’opinione pubblica: nacque così il “Rock Garden”, “Giardino delle Pietre”, un vero e proprio “museo all’aperto”, divenuto ormai la seconda attrazione turistica dell’India dopo il Taj Mahal.

 

POPOLAZIONE, LINGUA, RELIGIONE

In totale il Pakistan conta circa 70 milioni di Punjabi e l'India 39 milioni.
Etnicamente, i moderni Punjabi sono il risultato di tutti i principali popoli vissuti nella regione sin dall’antichità: Indo-Ariani, Indo-Sciti, Indo-Parti, Indo-Greci… poi, in epoca islamica, i colonizzatori provenienti dalla Persia, dall'Afghanistan e dall'Asia centrale.

La lingua punjabi è parlata da circa il 90% della popolazione nel Punjab pakistano e dal 92,2% nel Punjab indiano. L'alfabeto punjabi utilizzato nel Punjab indiano è il gurmukhi (“dalla bocca del Guru”) ed è considerato sacro (i testi sacri sikh sono scritti in quell’alfabeto).   Nel Punjab pakistano, dove l’Islam è la religione del 98% della popolazione, si usa invece l’alfabeto shahmukhi, più vicino a quello persiano.
La città santa sikh, Amritsar, si trova nel Punjab indiano, dove più del 52% della popolazione è Sikh e il 45% Indù, mentre si contano minoranze di Giainisti, Cristiani, Musulmani e Buddisti.
Recentemente, l’immigrazione da altri stati indiani ha reso il panorama etnico e religioso più vario e articolato.

 

IL TEMPIO D’ORO SIKH E I CONFLITTI CON IL GOVERNO CENTRALE



Tempio d'oro ad Amritsar

Amritsar è una delle città più importanti anche per la religione Giainista, ma è soprattutto il centro culturale e spirituale della religione Sikh e la sede dello splendido Harmandir Sahib (o Hari Mandir), conosciuto in occidente come Tempio d’Oro. Vi sono conservati molti testi sacri e per i sikh è la meta di pellegrinaggio dove recarsi almeno una volta e, in particolare, durante le occasioni speciali della propria vita.

Il tempio sorge al centro di una grande vasca, che si dice sia stata scavata da Guru Ram Das (1534-1581), il quarto Guru: il nome amritsar (“lago dell’immortalità” o “lago dell’acqua santa”) fu esteso anche alla città che vi si sviluppò intorno.
Il tempio, completato nel 1601, fu poi semidistrutto dagli Afghani e ricostruito nella seconda metà del XVIII secolo. Gran parte delle dorature e dei marmi è stata realizzata nei primi anni dell’800 con il patrocinio e i finanziamenti di Ranjit Singh, primo Maragià del breve Impero Sikh, devoto del decimo Guru, Guru Gobind Singh.
Il Tempio d’Oro è sempre stato al centro degli scontri etnico-religiosi.

Nel 1984, i separatisti sikh guidati da Jarnail Singh Bhindranwale usavano il tempio come loro base: erano accusati di terrorismo, ma non avevano alcuna intenzione di farsi arrestare.   Molte case dei viali circostanti erano occupate da militanti in contatto radio con il comando asserragliato nell’Akal Takht (cuore del Tempio e sede del vertice religioso Sikh) e tre torri fortificate fornivano ottime postazioni di avvistamento e combattimento.
Il 3 giugno, il governo indiano impose il coprifuoco sullo stato del Punjab e l’esercito mise in atto l’Operazione Blue Star.  Attaccò le difese esterne al Tempio, ma i separatisti non si arresero e risposero con mitragliatrici e razzi. Si cercò di evitarlo, ma il Tempio finì con il trovarsi sulla linea del fuoco. I combattimenti si protrassero per tre giorni, con l’intervento di almeno venti carri armati, fino alla sconfitta dei ribelli. Secondo un rapporto ufficiale, l’esercito indiano subì 83 morti e 249 feriti, mentre 492 sarebbero state le vittime civili e 433 gli arrestati. Il complesso del Tempio d’Oro subì pesanti danni.
All’epoca, Presidente dell’India era Zail Singh, membro del Partito del Congresso e fedelissimo del Primo Ministro Indira Gandhi, ma anche il primo sikh a ricoprire una carica così importante. Non è chiaro se Indira Gandhi lo avesse avvertito dell’Operazione Blue Star e se fosse coinvolto nelle decisioni che erano state prese.  In seguito agli eventi, nonostante le pressioni, il Presidente Zail Singh non si dimise, ma fu chiamato davanti all’Akal Takht per rendere conto della sua passività di fronte alla profanazione del Tempio e all’uccisione di tanti Sikh.
La rabbia di molti sikh per l’attacco al loro santuario più sacro ebbe profonde e drammatiche conseguenze.
5 mesi dopo, il 31 ottobre 1984, due ufficiali addetti alla sicurezza del Primo Ministro Indira Gandhi le spararono uccidendola. Le due guardie del corpo erano sikh e la loro vendetta scatenò in tutta l’India rappresaglie e sommosse anti-sikh, che causarono molte vittime (10.000 sikh, secondo alcune stime).

I rapporti tra la comunità sikh e il governo centrale di Delhi, da sempre complessi, diventarono per lungo tempo molto difficili. Anche il Generale Arun Shridhar Vaidya, capo di stato maggiore dell’Esercito indiano al tempo dell'operazione Blue Star, fu assassinato nel 1986 da due sikh, poi condannati all’impiccagione. In questo clima violento e conflittuale, nello stesso 1986, i restauri sull’Akal Takhtdel Tempio d’Oro, che il Governo indiano aveva fatto eseguire senza consultare gli interessati, furono rimossi (un nuovo Akal Takht fu poi completato nel 1999). 
Con il nome “Operazione Black Thunder” vennero attuate una serie di operazioni militari, allo scopo di debellare le ultime resistenze degli estremisti Sikh, che avevano ancora il Tempio d’Oro come punto di riferimento. I commando dell’NSG (National Security Guards) effettuarono un grande attacco il 30 aprile 1986, ma quello definitivo iniziò il 12 maggio 1988 e si concluse con la resa dei militanti il 18 maggio.
In seguito a questi eventi, il Governo espropriò terreni ed edifici circostanti (molte persone vennero trasferite) per creare una cintura di sicurezza intorno al tempio. Il progetto incontrò una forte resistenza da parte delle organizzazioni Sikh, anche quelle moderate. Nel 1993, il progetto della cintura di sicurezza, ripensato in accordo con lo Shiromani Gurdwara Prabandhak Committee (SGPC), l’organizzazione responsabile della custodia dei templi sikh in India, venne trasformato in un’area di paesaggio pedonale, coerente con la bellezza leggera e solare del tempio.
A causa delle violenze e degli attacchi avvenuti in India contro le aree religiose, negli anni 2000 sono ulteriormente aumentate le misure di sicurezza.
In segno di accoglienza ed apertura, il Tempio d’Oro ha un’entrata ad ognuno dei 4 lati. Chiunque può entrare, senza distinzione di sesso, razza o religione. Bisogna solo rispettare alcune regole: coprirsi il capo e lavarsi i piedi nel laghetto prima di accedere al santuario e, una volta all’interno, non fumare, non assumere alcol e droghe e non mangiare carne. Del resto, in qualunque tempio sikh (Gurdwara) si seguono le stesse regole.
Durante le festività più importanti, come quelle che celebrano la fondazione del Khalsa, o il martirio o il giorno della nascita di un Guru, il Tempio d’Oro risplende di lampade e fuochi d’artificio e viene visitato da 1 a 2 milioni di pellegrini.

 

ANANDPUR SAHIB E L’HOLA MAHALLA

L’Hola Mahalla è il festival Sikh: secondo un complesso calcolo lunare, cade quasi sempre in marzo, apre il Nuovo Anno Sikh e raduna ogni anno circa 100.000 fedeli in una atmosfera vivace e colorata.
La festa si tiene a Anandpur Sahib, vicino al confine con l’Himachal Pradesh, ai piedi dell’Himalaya e lungo le rive del Sutlej, uno dei 5 grandi fiumi del Punjab. La città è uno dei più importanti luoghi sacri dei Sikh:  fu fondata nel 1665 dal nono Guru, Guru Tegh Bahadur, che comprò un pezzo di terra e vi costruì la propria casa.
Il cuore di Anandpur Sahib è il Gurudwara Takht Sri Keshgarh Sahib, sul luogo di nascita del Khalsa e ancora oggi una delle 5 sedi dell’autorità temporale dei Sikh (Cinque Takht).
Nella città ci sono altri Gurudwara molto importanti: sorgono nei luoghi dove secondo la tradizione venne cremata la testa del nono Guru dopo il suo martirio a Delhi nel 1675, o dove meditava e componeva inni in una stanza sotterranea, o dove il decimo Guru, Guru Gobind Singh, invitò i fedeli a prepararsi a combattere per la libertà della fede e contro la tirannia e l’ingiustizia……
Il decimo Guru, Guru Gobind Singh, fece anche costruire 5 forti (qila) per proteggere la città. Erano gli anni della guerra contro l’impero Moghul e i Rajput.
Si racconta che Bhai Ghanaiya, un discepolo che viveva alla lettera la missione di servire l’umanità senza distinzione di nazionalità, casta o credo, si prodigasse instancabilmente per dissetare indifferentemente gli assediati Sikh e le file nemiche (1704). I Sikh se ne lamentarono, ma Guru Gobind Singh dichiarò che Bhai Ghanaiya aveva ben compreso i precetti della fede e gli diede anche un balsamo da applicare sulle ferite di chiunque ne avesse avuto bisogno.
Da questo episodio nacque una tradizione umanitaria 100 anni prima che Henry Dunant fondasse la Croce Rossa (dopo aver assistito alla tragica inadeguatezza dei soccorsi durante la battaglia di Solferino).

Nella città santa di Anandpur Sahib c’è anche il Virasat-e-Khalsa, museo del Sikhismo. Fu realizzato per celebrare i 500 anni della storia Sikh e i 300 anni dalla nascita del Khalsa. Consiste di due corpi ai due versanti di una valle, uniti da un ponte cerimoniale.
La tradizione della festa dell’Hola Mohalla iniziò con il decimo Guru, Guru Gobind Singh, che decise che sarebbe stata l’occasione per addestrare, alimentare ed esibire lo spirito marziale del suo popolo. I Sikh erano nel pieno della lotta contro l’impero Mogul islamico e contro i Rajput induisti e Guru Gobind Singh, proprio a Anandpur Sahib, aveva da poco istituito il Khalsa Panth (1699), l’ordine cavalleresco dei Sikh (con iniziazioni e caratteristiche molto simili a quelle degli ordini cavallereschi medievali europei, imposizione della spada compresa), Santi-Soldati dediti alla difesa dei deboli e degli oppressi. I membri del Khalsa si sarebbero distinti con le 5 K, che li avrebbero resi riconoscibili. Le 5 K e le regole etiche del Khalsa sarebbero stati poi estese a tutti i Sikh.
Dunque, nel 1701, prese il via la tradizione dell’Hola Mohalla, con battaglie simulate, esibizioni marziali e gare di poesia (appunto come le giostre e i tornei cavallereschi). Etimologicamente, Hola Mohalla(o Hola Mahalla) vorrebbe dire, più o meno, “carica di colonna in armi”; ma c’è anche una derivazione legata alla festa hindu della primavera e dei colori, che si mantiene anche nella messa in scena e nella celebrazione sikh.
L’Hola Mohalla dura tradizionalmente 3 giorni, ma in realtà per un’intera settimana, con i partecipanti sistemati e accampati ovunque.
Dalla mattina presto nei Gurudwara (templi), decorati per l’occasione, si tengono preghiere, riunioni consiliari e letture sacre; alla fine, viene offerto e consumato il prasad (cibo cerimoniale).

La sera, i Nihang Sikhs, membri dell’ordine guerriero detto degli “immortali”, sono i protagonisti della scena: costume blu elettrico, armatura, braccialetti e catena di ferro, anelli da lancio di acciaio taglienti infilati al collo e sui superbi alti turbanti, daga, spade, arco, lancia, scudo di pelle di bufalo... Storicamente, erano conosciuti per l’audacia e la ferocia in battaglia e per le azioni di commando e guerriglia; ora, nell’Hola Mohalla, esibiscono forza e abilità marziali in finti combattimenti, tornei e giostre sui cavalli in corsa; il tutto spruzzando e lanciando colori sulla folla.Durante la manifestazione, non mancano danze, musica e programmi di poesia. L’ultimo giorno, una enorme processione tocca tutti i maggiori gurudwara. Anche l’Hola Mohalla è occasione per dedicarsi alla comunità: portare i generi alimentari e tutto il necessario per il “langar” (cucina e refettorio del gurudwara, dove si offre cibo a chiunque, senza distinzione), cucinare, pulire, lavare i piatti.

 

LE GUERRE DELL’ACQUA

In India, la costituzione vieta ad una provincia o a uno stato di controllare o agire su una fonte d’acqua interstatale o comunque condivisa con altri stati o province. Se sorgono dispute, il parlamento centrale è deputato a dirimerle, ma si tratta di vicende sempre molto complesse.
Tra gli argomenti all’ordine del giorno in Punjab, c’è il cosiddetto “SYL canal” (Sutlej Yamuna Link Canal), un canale di 214 chilometri che dovrebbe unire i fiumi Sutley e Yamuna. Il progetto ha incontrato molte opposizioni ed è stato portato in giudizio alla Suprema Corte indiana: è in gioco la distribuzione dell’acqua tra Punjab e Haryana.
È una questione che nasce dall’epoca della partizione nel 1947: all’India toccò il bacino superiore dell’Indo, mentre al Pakistan andò quello inferiore, con il rischio che con il prelievo e l’utilizzazione dell’acqua i due paesi si danneggiassero a vicenda. Dopo anni, nel 1960 si risolse con l’Indus Water Treaty, che concedeva all’India l’uso illimitato del Sutley, del Ravi e del Beas. La disputa nacque quando nel 1966 il Punjab e l’Haryana furono divisi in due stati separati: l’Haryana chiedeva la sua quota di acqua, mentre il Punjab la riteneva che fosse tutta sua. Di fronte all’impossibilità di raggiungere un accordo, fu coinvolto il governo centrale, che nel 1976 stabilì pari diritti ai due contendenti e la costruzione del canale, che in Punjab trovò molte resistenze. A capo degli oppositori, Jarnail Singh Bhindranwale, che sarà poi leader degli estremisti sikh e, nel 1984, protagonista degli scontri con l’esercito al Tempio d’Oro. Nel 1977 iniziarono comunque i lavori, con il contributo finanziario al Punjab da parte dell’Haryana, che intanto portava a compimento la sua parte di canale. Tra il 1981 e il 1982, con il partito Indian National Congress al potere sia nel governo centrale che in Punjab, i lavori ripresero anche al di qua del confine, ma nel 1985 cambiò la maggioranza locale e il nuovo governo del Punjab ripudiò gli accordi. Di fronte alle sentenze del tribunale, i lavori ripresero nel 1990, subito interrotti quando un ingegnere fu ucciso da alcuni militanti. Negli anni seguenti, mentre l’Haryana otteneva più volte ragione dalla Corte Suprema e il governo centrale assumeva direttamente i lavori di completamento del canale, il governo del Punjab ripudiava tutti gli accordi, pretendeva la restituzione delle terre espropriate e chiedeva il pagamento dell’acqua dall’Haryana, dal Rajastan e da Delhi.
Il ritorno al governo del Punjab del partito del Congresso, nel marzo del 2017, con una schiacciante maggioranza, ripropone ovviamente la questione di portare a termine il canale e di rispettare gli accordi e le leggi federali indiane.

Ma non si tratta né del primo né dell’unico caso di conflitti legati al problema dell’acqua.
La diga di Bhakra (nell’Himachal Pradesh) fu concepita nel 1908 con un bacino alto 120 metri. Nel 1927, l’altezza fu portata a 500 metri. Dopo l’indipendenza, nel 1947, la diga assunse una nuova importanza: una larga parte della terra irrigata nel bacino idrico dell’Indo era finita sotto il controllo del Pakistan e all’India occorrevano nuove fonti di irrigazione per il Punjab. La diga fu ampliata e completata nel 1963. Il primo ministro Jawaharlal Nehru la definì “il tempio dell’India moderna” e trasferì il controllo dell’acqua al governo centrale, ma in seguito ammise di essere stato malato di “gigantismo”.  La centralizzazione del sistema di gestione non impedì le alluvioni, le insufficienze e i conflitti tra stati vicini o con il governo centrale. Le grandi dighe si traducevano spesso in ingiustizie, perché chi ne sopportava i costi non ne godeva i benefici: milioni di persone, in India, sono state sradicate dalla loro terra e la popolazione di Bhakra, oltre ad essersi dovuta spostare per la diga, non aveva né acqua potabile né elettricità.

Nel 1986, il primo ministro Rajiv Gandhi denunciava che in India dal 1951 erano stati ultimati solo 66 dei 254 progetti di irrigazione e, nonostante un grande esborso di denaro, alla popolazione non era derivato alcun vantaggio.
Nel settembre del 1988, le alluvioni sommersero il Punjab:  ci furono 1500 vittime e rimase isolato il 65% dei villaggi. Lo stato subì gravi perdite e l’80% del raccolto andò distrutto. Esperti del Punjab accusarono la gestione della diga di Bhakra di avere buona parte di responsabilità nel disastro e dopo alcune settimane il presidente della diga venne ucciso. Nel paese, ogni anno i conflitti provocavano molte centinaia di vittime.     
Gran parte delle grandi dighe dell’India post-coloniale è stata sovvenzionata dalla Banca Mondiale, che spinge per la sottrazione del controllo dell’acqua ai governi (indebitati) e verso la privatizzazione;  il mercato dell’acqua, peraltro, attira ormai grandi società multinazionali.
Ma in Punjab ci sono anche altri problemi legati all’acqua. Nel 2014 si sollevò l’allarme sulla contaminazione delle falde al confine con il Pakistan. I livelli di piombo, arsenico e uranio erano ben al di sopra dei livelli di guardia e in molti villaggi della zona si registravano deformità prenatali e malattie in numero statisticamente preoccupante. Sembra che la responsabilità sia delle fabbriche e delle concerie soprattutto pakistane che scaricano prima che il fiume locale entri in India: un ennesimo lascito negativo della partizione e di un confine difficile.

 

ECONOMIA

Il Punjab è una regione molto fertile
. Con la loro produzione agricola, sia quello pakistano che quello indiano contribuiscono in modo determinante al PIL dei rispettivi paesi e, tra strade, ferrovie e trasporti fluviali, vantano le loro migliori infrastrutture.
Nel Punjab indiano, gli agricoltori costituiscono circa il 40% della forza lavoro. È chiamato “il granaio dell’India” o “il cesto del pane dell’India”: produce l’1% del riso mondiale, il 2% del frumento e il 2% del cotone. A tutti gli effetti, è probabilmente anche la regione più ricca dell’India.  
Anche le industrie più importanti sono nei settori del tessile e della macinazione dei cereali, più direttamente connessi con la produzione agricola.
Ma negli ultimi anni questa grande risorsa è entrata in una crisi che rischia di aggravarsi e di causare serie conseguenze sia in campo economico che ecologico.
La cosiddetta “green revolution”, l’applicazione di nuove tecniche agricole alla produzione di nuove piante selezionate e ibridate in laboratorio, è stata sperimentata in Punjab in modo massiccio. Gli abitanti sono stati incentivati dal governo e dai produttori industriali, con i prezzi minimi garantiti e l’acqua pompata a costo zero.
Ma l’incremento quantitativo dei raccolti è stato pagato con pesanti “effetti collaterali”. Il Punjab, “terra dei cinque fiumi”, si ritrova a dover affrontare una paradossale carenza d’acqua e, dove l’acqua ancora c’è, a dover fare i conti con l’inquinamento da pesticidi e fitofarmaci, che minaccia la salute delle popolazioni indiane anche a valle del Punjab.
Mentre le incertezze climatiche, come un monsone fuori tempo, possono mettere a rischio i raccolti, è comunque evidente che uno dei problemi maggiori dell’India è la sovrappopolazione, che richiede una quantità di cibo sempre maggiore. E il controllo delle nascite è ancora un problema lontano dall’essere risolto.

 

ATTUALITA’

Nel marzo del 2017, il partito del Congresso è tornato al potere in Punjab dopo 10 anni, vincendo con una forte maggioranza di voti e aggiudicandosi 77 seggi su 117. I nuovi ministri hanno giurato alcuni in inglese, altri in hindi altri in punjabi.
A parte le reciproche accuse di corruzione a livello politico e il problema della disoccupazione, tra le questioni di attualità c’è anche la droga:  i cartelli mafiosi che controllano traffico e spaccio, ma anche la grande diffusione di consumo soprattutto di oppiacei e tossicodipendenze che arrivano a coinvolgere persino bambini.
Il raccolto di riso e grano - di cui il Punjab è un grande produttore – è uno degli argomenti che portano in evidenza le relazioni con il governo centrale: migliorano o si aggravano se il partito al potere è lo stesso (Indian National Congress) oppure di posizioni opposte, ma sono comunque complicati dall’intricato rapporto tra ritardi nei pagamenti statali, crediti, finanziamenti e debito pubblico.
La parità di genere non è sufficientemente rispettata a livello politico. Nel parlamento del Punjab (Vidhan Sabha) eletto nel 2017 ci sono solo 6 donne su 117 membri: 3 di loro sono del Aam Aadmi Party (AAP), un nuovo partito indiano nato da un movimento nel 2012 e che proclama come primo obiettivo la battaglia alla corruzione.

 

IL SIKHISMO

La parola sikh deriva dal sanscrito e significa “discepolo”. Il sikhismo è stata fondato da Shri Guru Nanak Dev, nato nel 1469 d.C. in un villaggio nei pressi di Lahore in Pakistan, in un’epoca in cui il subcontinente asiatico era turbato da guerre e invasioni. Fondò il suo pensiero filosofico su tre principi:  venerare il nome di Dio, lavorare con onestà e condividere con gli altri ciò che si possiede.
Unendo la partecipazione attiva alla vita sociale con l’esercizio della dimensione spirituale, i dieci guru hanno tutti contribuito alla formazione della comunità e della cultura sikh.   Il secondo guru introdusse il langar, la cucina comunitaria, per fornire cibo ai più poveri e bisognosi.   Il suo discepolo e terzo guru la istituzionalizzò e la rese aperta a tutti, indipendentemente dalla religione o casta.  Il quarto guru diresse personalmente la costruzione del Tempio d’Oro. Grazie al nono guru, il sikhismo inizio a diffondersi oltre la sua zona di origine. Il decimo e ultimo guru, Shri Guru Gobind Singh, introdusse nel 1699 la cerimonia del battesimo sikh, l’amrit.

A parte un periodo di indipendenza nella seconda metà del Settecento, la comunità sikh ha conosciuto fasi alterne nei rapporti con il potere politico (l’Impero Britannico prima e l’India indipendente poi). Quando il Punjab fu diviso tra India e Pakistan nel 1947, la maggior parte della popolazione sikh che lì viveva si trasferì nella parte indiana, oppure scelse la strada dell’emigrazione, inizialmente soprattutto verso il Regno Unito e il Canada, ma anche in Africa Orientale, dove la comunità era ben radicata dalla fine dell’Ottocento. Ormai la diaspora sikh è diffusa in tutto il mondo.

Le sacre scritture sikh sono raccolte nel Guru Granth Sahib, compilato nel 1604 e considerato l’ultimo dei guru.  Contiene pensieri, inni e insegnamenti dei dieci guru Sikh ma anche di grandi pensatori e mistici indù e musulmani.   Perché, come sancisce un principio fondamentale di guru Nanak, “tutte le fedi devono essere rispettate per la loro nobiltà d’intenti”.
Dal Guru Granth Sahib deriva anche il codice di condotta sikh, per il quale con la meditazione e con l’impegno quotidiano si deve tendere al continuo miglioramento.   Ognuno ha una forte responsabilità individuale: quella di condurre una vita ricca di valore e utile all’umanità. Nella pratica concreta della vita, nel rendere servizio agli altri, la salvezza può essere raggiunta da chiunque, conducendo una vita onesta e ordinaria.

Il sikhismo è una religione monoteista.  Per i sikh, un unico essere supremo e Creatore è presente in ogni persona, per cui tutti sono uguali di fronte a Dio, indipendentemente dalla razza, dal sesso o dalla nazionalità.   Per questo motivo i sikh rifiutano anche la divisione in caste presente nell’induismo.
Non a caso, tutti i Sikh si chiamano Singh di “cognome”, anche se, per essere precisi, Singh (che deriva dal termine sanscrito che significa leone) è il secondo nome, parte essenziale del nome maschile. Un secondo nome uguale per tutti, al posto del cognome, ha un significato anticasta, perché nel subcontinente indiano il cognome identifica la casta di appartenenza.
La religione sikh prescrive il rispetto di alcune regole, come il divieto di consumare carne, alcolici e tabacco e di portare i cinque simboli, conosciuti come i cinque K:
kesh (cioè i capelli lunghi non tagliati – così come la barba - spesso raccolti in un turbante), kangha (un pettine), kara (un braccialetto di ferro), kachera (un particolare tipo di biancheria) e kirpan (un pugnale, simbolo di lotta contro l’ingiustizia).
La donna sikh partecipa ai servizi religiosi e può anche officiarli. Satpal Singh, esponente del World Sikh Council, commentando le ripetute violenze sulle donne che si registrano nel paese, ha sottolineato: “Se la società nel suo complesso non abbandona l’idea che le donne siano in qualche misura inferiori agli uomini, o che comunque debbano restare al servizio degli uomini, non riusciremo a combattere la vera causa della violenza contro le donne. I leader religiosi del mondo possono avere un ruolo importante in questa lotta quotidiana. Devono ricordare a tutti i credenti che Dio non è misogino. Devono chiarire alle loro comunità che Dio ha creato la donna, esattamente come l’uomo, a immagine di Dio. Bisogna sottolineare che la stessa luce divina abita nella donna e nell’uomo.”
Il langar, la cucina comunitaria che si trova nei templi (gurdwara) e dove viene sempre servito un pasto a base di cereali e verdure, è aperto a chiunque e sedersi per terra è segno di uguaglianza.

 

I SIKH IN ITALIA

In Italia ci sono circa 70.000 fedeli Sikh, la seconda comunità Sikh in Europa, dopo quella del Regno Unito. Sono soprattutto del Punjab indiano, immigrati già dagli anni ottanta e novanta, quando da noi si spopolavano le campagne.   I gruppi più numerosi si sono insediati nell’Agro Pontino e nella Pianura Padana, dove hanno trovato occupazione soprattutto nel settore agroalimentare e zootecnico.
La loro presenza, importante e discreta, ha salvato molte aziende dalla crisi e dalla mancanza di manodopera nostrana ed è ormai fondamentale nella produzione di due eccellenze come il Parmigiano Reggiano e il Grana Padano.
Nel nostro paese i Sikh non hanno una organizzazione unitaria, ma gli edifici dedicati al culto sono ormai più di 30: il primo Gurdwara (tempio) è sorto a Novellara (Reggio Emilia), dove si organizzano anche competizioni musicali dedicate agli strumenti e ai canti religiosi tradizionali sikh.  Il tempio più grande (il secondo in Europa per dimensioni) è stato inaugurato nel 2011 a Pessina Cremonese: finanziato da un mutuo della Banca Agricola Mantovana e dalle offerte dei fedeli, si estende su 2.352 metri quadrati, ha quattro torri alte 15 metri e può ospitare 500 fedeli; al piano terra ci sono la mensa, la cucina, il locale per il deposito delle scarpe e i servizi igienici, mentre la grande sala per le riunioni e le preghiere si trova al primo piano. Ogni domenica, i fedeli si riuniscono per pregare e mangiare insieme (vegetariano e senza alcol) e anche chi non è Sikh può entrare e avere un pasto gratuito.
Se i Sikh sono ben inseriti in molte zone d’Italia, non è però così ovunque. Nell’Agro Pontino, per esempio, si registrano molte situazioni di sfruttamento e di caporalato, tanto che, per resistere alle durissime condizioni di lavoro, molti lavoratori, prevalentemente indiani sikh, arrivano ad assumere antidolorifici e addirittura capsule di oppio (con vergogna e senso di colpa perché non ammesse dalla loro religione).   Nel 2016, si è avuto il primo sciopero e la prima manifestazione che li ha visti protagonisti di una lotta per paga, orari e condizioni di lavoro rispettosi di regole e contratti.
Per il Sikhismo, non esiste ancora un riconoscimento ufficiale dello Stato italiano, ma solo accordi territoriali tra le comunità e gli enti locali. Ad ogni modo, non si sono mai verificati veri problemi, ma solo qualche difficoltà relativa all’abbigliamento tradizionale a cui i sikh si devono attenere per il rispetto delle loro regole. In particolare, per l’allarme sicurezza in qualche aeroporto è stato richiesto loro di togliere il turbante (dastaar). È successo anche nel mondo dello sport: qualche arbitro ligio ai regolamenti ha vietato l’uso del patka (la versione ridotta del turbante) in partite di basket e di calcio, perché i copricapi potrebbero risultare pericolosi; sono però stati solo casi isolati, accompagnati da solidarietà e invito alla sensibilità e tolleranza da tutto il mondo sportivo.
Il turbante, infatti, per i fedeli sikh è di estrema importanza. Non se lo tolsero nemmeno per indossare l’elmetto protettivo, durante le due guerre mondiali, quando combattevano con le truppe dell’Impero Britannico (di cui l’India era ancora parte): ne morirono 83.000 e 135.000 furono feriti. Nei giorni in cui si tentava di imporre ai Sikh di indossare il casco per andare in motocicletta, Winston Churchill ricordò in parlamento il grande debito di gratitudine verso i Sikh per aver combattuto ed essersi sacrificati per l’onore, la dignità e l’indipendenza dei britannici e concluse: “A quel tempo, a causa della nostra penosa situazione e l’estremo bisogno di aiuto, non li forzammo ad usare gli elmetti; perché dovremmo costringerli ora?”.
Durante la seconda guerra mondiale, molti Sikh sono morti anche nel nostro paese. La comunità che vive in Italia li ricorda ogni anno con una cerimonia che si svolge a Forlì, nel Cimitero di guerra dell’Indian Army, dove un Memoriale custodisce i corpi cremati dei soldati sikh inquadrati nell’Ottava Armata Britannica. Per rendere onore ai caduti alleati, partecipa anche un picchetto militare italiano. La celebrazione finisce poi con una esibizione “Gatka”, la tradizionale arte marziale dei Sikh.

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